Dovessi dire com’è il Salone internazionale del libro di Torino direi che non lo so. Forse come le vasche per l’allevamento in mare aperto e noi, tonni, ci saltiamo dentro. Come un posto dove il tempo si accorcia e si allunga, senza senso, senza un perché (e alla fine quando serve sono sempre le 15, mai, che ne so, le 20 almeno).
È un’incubatrice che per cinque giorni ci permette di vivere come fosse tutto vero. Un posto per storie (tantissime), persone (troppe ma mai abbastanza) e domande strane («dove posso trovare quadernoni per la scuola?») o impellenti («signorina, ho bisogno dell’uscita, dov’è l’uscita?!») e risposte niente male («mah, non saprei… sono appena arrivata… ah, guardi! provi di là, vedo la luce! vada verso la luce!»).
È stato un momento per prendere appunti, più che comprare. E comunque comprare quel po’ per fare regali, che è sempre la cosa più bella. È stato soprattutto un momento per gli abbracci, vecchi e nuovi. Per consolidare conoscenze.
Non lo so com’è il #SalTo, non riesco a pensarlo… eppure guarda tu st’infame se alla fine non mi manca. (fortuna che torna, dal 18 al 22 maggio 2017).
Giornalista pubblicista dal 2012, scrive da quando, bambina, le è stato regalato il suo primo diario. Ha scritto a lungo su InStoria.it e ha aiutato manoscritti a diventare libri lavorando in una casa editrice romana, esperienza che ha definito i contorni dei suoi interessi influendo, inevitabilmente, sul suo percorso nel giornalismo. Nel 2013 ha collaborato con il mensile Leggere:tutti ma è scrivendo per art a part of cult(ure) che ha potuto trovare il suo posto fra libri, festival e arti. Essere nata nel 1989 le ha sempre dato la strana sensazione di essere “in tempo”, chissà poi per cosa...
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