Per un bès mai dato: la solitudine dell’artista rivive nel dialogo esistenziale Perrotta-Ligabue

immagine per Un bès, Antonio Ligabue

Antonio e Mario. È d’obbligo chiedersi, dopo la visione di Un bès, Antonio Ligabue, in scena alla Sala del ridotto del Teatro Comunale di Vicenza, dove inizi uno e dove finisca l’altro. Un monologo, fisicamente ma non drammaturgicamente definibile tale, scritto diretto e interpretato da Mario Perrotta, dedicato alla figura piccola e potente del pittore Antonio Ligabue.

Il pluripremiato spettacolo – ospitato a Vicenza nell’ambito del Festival Gli stati della mente che ha sviluppato in una serie di appuntamenti e con diverse forme artistiche il tema della malattia mentale – è una tappa di un viaggio molto più lungo, e questo intimo legame di Perrotta con la storia di Ligabue è palpabile nella messa in scena.

Un bès è parte infatti di Progetto Ligabue: arte, marginalità e follia, un progetto triennale avviato nel 2013 incentrato sulla figura di Ligabue, conclusosi nel 2015 con un evento che ha coinvolto sulle rive del Po oltre 200 artisti per 4 giorni di spettacolo (Bassa continua – Toni sul Po).

Antonio Ligabue, detto Toni, giovanissimo inizia a conoscere il mondo dei manicomi, un altrove dai moltissimi nomi che lascia impresso dovunque e comunque il marchio del diverso, del disturbato, del rifiuto della società.

Antonio non ha un padre, ha una madre che lo obbliga a prendere il cognome dell’uomo che sposa – quel “Laccabue” così odiato che diventerà poi Ligabue per suo stesso volere – ha una famiglia che lo cresce ma non lo accetta fino in fondo costringendolo allo straziante addio alla Svizzera e a quella mutter, unica figura materna amata di un amore non abbastanza ricambiato, senza neanche un bès.

“Deportato” affettivamente dalla Svizzera all’Italia, terra straniera per lingua e luoghi, il Toni diventa per tutti il tedesco, il matto di Gualtieri, terra natale del Laccabue, un pezzo di Emilia del primo Novecento. In mezzo a quell’umanità così ostile, è il mondo animale ad accogliere Antonio, è la natura a diventare mutter; vive tra gelo e stenti nei boschi, trovando in quella dimensione liminale un’espressione artistica assolutamente spontanea e originale.

Lui, il matto, cosa mai potrà fare di buono? Ecco che se il quadro avuto in cambio per un piatto di minestra finisce a bruciare nel camino, qualcuno riesce ad andare oltre e mostrare al mondo quella bellezza nascosta tra i boschi e la malattia.

Ligabue, e la sua arte che, pur sviluppandosi all’esterno, si nutre inevitabilmente anche dell’esperienza del confino fisico e mentale del manicomio, non può non essere considerato figlio di quella società artaudiana che suicida l’artista, che nella marginalità e nella follia non riesce a cogliere la bellezza e la dimensione altra dell’immaginario espressivo.

Lo spettacolo non indugia in concettismi drammaturgici o artifici retorici di sorta, è carnale e racconta face à face allo spettatore prima di tutto la storia di un uomo solo, che cerca affetto senza mai riuscire ad averne. Ce lo presenta bambino, giovane adulto e poi al termine della vita, circondato da personaggi che rivivono in scena grazie al febbrile, vorace tratto nero e alla sapiente mano libera di Perrotta, madido nei  poveri abiti di scarto umano.

Il suo Ligabue, seppure solo, sul palcoscenico come nella vita, dialoga incessantemente con le figure che strappo dopo strappo, anno dopo anno, riempiono i fogli bianchi e si racconta quasi in un flusso di coscienza accompagnando con forte tensione il pubblico attraverso un percorso fatto di climax emotivi, attraversando luoghi e vicende umane mentre, spontaneamente, la carica pittorica esplode letteralmente tra le mani di Antonio, divenuto senza nemmeno averne cognizione esponente di uno stile originale, diviso quasi in punto di morte tra il successo, le mostre e una vita di stenti.

Non è la povertà materiale o il gelo degli inverni nel bosco a renderlo inquieto, è solo quella fame di affetto mai colmata, quel bès implorato quasi schernendosi fino alla fine, emblema di quella solitudine di tutta una vita che Mario Perrotta fa sua in modo quasi viscerale, oltrepassando il confine segnato tra attore e personaggio, complice anche lo straordinario lavoro sul piano linguistico e dialettale che lo vede passare dal tedesco al dialetto emiliano, come posseduto da modulazioni della voce dolorosamente autentiche.

Il Toni non c’è più, ma quel giorno in cui “diventerà tutto splendido. Per me e per voi” è arrivato a teatro.

  • UN BÉS, ANTONIO LIGABUE uno spettacolo di Mario Perrotta
  • collaborazione alla regia Paola Roscioli
  • collaborazione alla ricerca Riccardo Palterini
  • Premio UBU 2013 come Miglior attore protagonista
  • Premio HYSTRIO-TWISTER 2014 come miglior spettacolo dell’anno a giudizio del pubblico
  • Premio UBU 2015 come miglior progetto artistico e organizzativo per l’intero Progetto Ligabue
  • PREMIO DELLA CRITICA/Associazione Nazionale Critici di Teatro 2015 per l’intero Progetto Ligabue

Evento speciale inserito nell’ambito de Gli Stati della Mente – Festival di Arte e Cultura a cura di Petra Cason
In collaborazione con LA PICCIONAIA – Centro di produzione teatrale

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La Sicilia non solo terra d'origine ma luogo dell'anima, culla del teatro e fonte di ispirazione dove nasce l'amore per la scrittura. Dopo una laurea in Comunicazione e una specializzazione in Discipline dello spettacolo, scelgo di diventare giornalista e continuare ad appassionarmi alla realtà e ai suoi riflessi teatrali e cinematografici.

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