Ballata dei senza tetto. Il viaggio di Ascanio Celestini nell’invisibile bellezza della periferia

immagine per Ascanio Celestini
Ascanio Celestini

Una scenografia naturale da togliere il fiato – anche letteralmente, con la suggestiva e ripida salita verso il Colle della Rocca di Monselice, che custodisce il complesso architettonico di Villa Duodo – avvolge il racconto di Ascanio Celestini: la Ballata dei senza tetto trova spazio nell’ambito della diciassettesima edizione di Euganea Film Festival, manifestazione dedicata al cinema e alla valorizzazione del territorio.

Il Festival, dedicato primariamente a documentari e cortometraggi di fiction e di animazione, presentati al pubblico nel corso di proiezioni gratuite, ha nel corso degli anni allargato i suoi orizzonti presentando oggi in concorso opere di respiro internazionale e gettando lo sguardo anche su altre forme espressive, come il teatro, parallelamente alla riscoperta del ricchissimo patrimonio storico-artistico e paesaggistico del Parco Regionale dei Colli Euganei.

Gli eventi in programma sono stati infatti ospitati, dal 14 al 24 giugno, in diverse location tra i Comuni di Monselice, Este, Battaglia Terme e Montegrotto Terme, spazi vissuti nel corso del Festival non solo come contenitori culturali ma anche come luoghi da riscoprire con visite guidate programmate e con la degustazione di prodotti del territorio, punteggiato in special modo di pregiate vigne.

Ballata dei senza tetto è figlia di Laika e Pueblo, prime due parti di una trilogia inaugurata a Romaeuropa Festival nel 2015 che si chiuderà, dice in apertura Celestini, con un ultimo spettacolo, in cantiere forse per il 2019.

Cos’è allora questa ballata? Non è il punto di arrivo del racconto, è una tappa del viaggio, è incrocio drammaturgico e commistione di storie affidate al potere della parola vibrata tra le note di tastiera e fisarmonica di Gianluca Casadei, interlocutore silenzioso nello spazio vuoto del palcoscenico. Si avverte la mancanza di qualche elemento scenografico, che siano pure pochi oggetti simbolici, a definire lo spazio suggerendo allo spettatore una suggestione, un’atmosfera in cui vivere il racconto, entrando nel cerchio magico che a teatro permette all’immaginazione di stabilire un’intima relazione con la realtà.

È fondamentale nel teatro di narrazione, più che in ogni altro genere drammaturgico, che il pubblico si connetta empaticamente con il testo e con il narratore, in una messa in scena in cui l’interpretazione lascia il posto alle tecniche del racconto, attraverso una parola che si fa anafora, ritmo e ridondanza, conferendo ai personaggi una forza scenica non mimetica ma immaginifica.

Spesso chi arriva a teatro non ha una conoscenza pregressa del testo o dell’artista che andranno in scena, ma entra ritualmente in luogo che  definisce nella rappresentazione ruoli e meccanismi codificati. In un contesto diverso dall’edificio scenico, in un luogo aperto prestato alla fruizione teatrale e collocato all’interno di un contenitore culturale variegato, quale può essere un Festival, può esistere questa consapevolezza o può nascere estemporaneamente nel qui ed ora dello spettacolo, con una percezione sicuramente diversa della materia narrata.

Non si può dunque leggere Ballata dei senza tetto senza comprendere l’imprescindibile legame tra chi racconta e chi ascolta, perché in questa relazione prendono forma i luoghi fisici e mentali indagati e trasposti drammaturgicamente dall’autore. Il Quadraro – caro a Celestini  già dal suo bellissimo Scemo di guerra – Torpignattara e tutta la sconfinata periferia che è Roma come e più della Roma dei circuiti turistici, ma che è periferia anche più largamente intesa come luogo dell’anima, in ogni contesto geografico, abitata da Domenica, dal suo papà che la impara a rubare e la picchia, da uno zingaro di 8 anni che fuma e che la impara a rubare uguale ma che non la picchia; di Domenica che rimasta orfana finisce dalle suore, dove per punizione deve leccare il piscio dalle mutande e fare le croci per terra con la bocca, che poi vuole smettere di vivere ma la salvano e finisce a bottega da un Cavaliere che sembra nobile e invece nobile non è; di Domenica che in un giorno di pioggia entra per ripararsi nella casetta di plastica vicino il supermercato e ci rimane trent’anni.

Insieme a Domenica, il microcosmo degli ultimi è abitato da una prostituta rumena che doveva farsi suora e dall’orgoglioso padre di Giovanni che dal paese va a Roma e tutti lo prendono in giro per il suo accento ma lui è orgoglioso di quel figlio destinato a una vita troppo breve, mentre gli zingari pasciuti rubano e campano di più a spese degli italiani.

Accanto alla periferia fisica ce n’è infatti una, gretta e sconfinata, umana e tutta italiana, fatta di discorsi da bar e di frasi che se fossero finte farebbero ridere e invece sono tristemente sentite davvero, frutto di convinzioni sulla razza e sul futuro del Paese da buio etico.

L’ascolto della realtà e la sapiente drammatizzazione di volti e storie, che nella periferia vissuta da Celestini brulicano invisibili sotto gli occhi di tutti, diventano nell’oralità del racconto in scena un patrimonio collettivo rimaneggiato tra il passato di Laika e Pueblo, il presente e il futuro dello spettacolo che verrà, rendendo allo spettatore un’esperienza diversa e nuova anche nel ritorno dei temi e dei personaggi, e la visione di Pueblo prima della Ballata avvalora questa percezione, perché non è una replica su copione ma un incontro in un preciso intervallo di spazio e di tempo, tenuto poeticamente in alto dall’autore-narratore, senza il quale le parole e le immagini non diventerebbero teatro.

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La Sicilia non solo terra d'origine ma luogo dell'anima, culla del teatro e fonte di ispirazione dove nasce l'amore per la scrittura. Dopo una laurea in Comunicazione e una specializzazione in Discipline dello spettacolo, scelgo di diventare giornalista e continuare ad appassionarmi alla realtà e ai suoi riflessi teatrali e cinematografici.

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