Museo Pasolini: le colpe del Novecento italiano e l’inconsumabilità della poesia

immagine per museo pasolini ascania celestini

La voce degli autori contemporanei riporta numeroso il pubblico a teatro per la XVIII edizione della Rassegna Arti Inferiori, promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Padova in collaborazione con Arteven.
Sono soprattutto le parole, più che gli oggetti, a riempire il Museo Pasolini di Ascanio Celestini, interprete e autore di un testo che graffia le coscienze nella narrazione potente, drammatica e scanzonata insieme, di un secolo di storia italiana.

Pier Paolo Pasolini è il poeta, nato a Bologna mentre gli eventi cardine del fascismo stanno cambiando il Paese cosi come cambieranno la sua vita e quella della sua famiglia, con il padre ufficiale del Regime e il fratello Guido coinvolto tragicamente nelle vicende della lotta partigiana.

La cronologia, ripete il nostro narratore, è fondamentale per ricostruire le vicende pubbliche e quelle private del poeta che torna nel Friuli della mamma Susanna e sperimenta l’amore per la scrittura, scopre una lingua non sua ma se ne innamora e fa uscire la poesia dai libri per farla sua, materia viva creativa.

Sono moltissime le voci che ci restituiscono Pasolini attraversando anno dopo anno il ventennio fascista, fino ad arrivare a Roma, dove il poeta diventa scrittore, regista e dove la sua vita privata diventerà bersaglio e alibi per oscurare ogni verità, sulla sua morte ma anche e soprattutto sulla sua opera artistica e su quanto di profetico ha detto e scritto sull’Italia, su tutto quello che dopo la fine della Seconda guerra mondiale ha continuato ad avvelenare il Paese, ad uccidere con le stragi e non solo.

Le voci di Celestini, di una Roma di borgate che negli anni Settanta si vedono invase dalle fabbriche, come quella della Penicillina sulla Tiburtina, attraversano la vita del poeta da Rebibbia fino al mare, fino alle baracche dove scopre i suoi personaggi e un’autenticità antropologica che molto ha in comune con l’universo narrativo di Celestini, profondo conoscitore e cantore di storie aspre di ordinaria povertà, di disperazione nei toni assolati e acuti della voce del popolo.

Un paio di contributi di testimoni diretti entrano nello spettacolo con l’audio delle loro vive voci, e su questo elemento si sarebbe forse potuto indulgere ancora in qualche altro momento in un paio d’ore di messa in scena in cui Celestini restituisce il suo lungo lavoro di ricostruzione storica e di scrittura scenica, lasciando il segno con personaggi che vivono solo attraverso le sue parole e che rimane il desiderio di incontrare ancora, per il loro fascino affabulatorio.

C’è chi dialoga con il poeta, alla fermata del tram e poi nella lunga traversata di tre ore e più mezzi fino alla scuola privata di Ciampino dove Pasolini insegna, chi nasce e muore tra roba caduta dal camion in quelle baracche abitate anche da prostitute e da preti che nella baracca della prostituta ci portano i bambini a scuola, perché nelle scuole vere forse non ci andranno mai.

È la storia di quelle stesse borgate toccate con profonda dolcezza e senza filtri dalla penna del poeta, con uno sguardo mai appesantito dai moralismi di quella borghesia cui suo malgrado appartiene e che lo tratterà da vivo e da morto come un rifiuto. Mi sembrava un mucchio di stracci, dirà la signora che vede il corpo martoriato di Pasolini all’alba del 2 novembre 1975 buttato per terra nei pressi della sua casa al mare.

Il corpo del poeta, uno degli oggetti custoditi nel Museo visitato dagli spettatori sotto la guida di Celestini che quel corpo lo va a trovare nel cimitero di Casarsa della Delizia, paese natale della mamma Susanna, tornata dopo la morte nel suo Friuli con i figli e altri membri della famiglia, tra cui il fratello Gino Colussi, zio del poeta e suo primo riferimento quando arriva a Roma e non sa dove andare.

Il cimitero di Casarsa della Delizia, un altro pezzo del Museo, e poi  ancora c’è una borsa in similpelle, di una marca tedesca che sembra nessuno venda in Italia quando qualcuno le utilizza per le bombe a Milano negli anni della strategia della tensione. Quelle borse, proprio di quella marca tedesca, le vendono invece in un negozio in Italia, le vendono a Padova, a pochi passi dal Duomo e a pochi passi anche dal teatro in cui Celestini ripercorre quest’altro pezzo di storia italiana, profondamente legato alla storia del nostro poeta che ha visto tutta la sua vita segnata dal fascismo e che proprio negli anni del terrorismo è stato messo a tacere perché – come ci ricorda Celestini ripercorrendo con la sua cifra stilistica la vicenda del fallito colpo di Stato organizzato da Iunio Valerio Borghese, fermato da una misteriosa telefonata – prima e dopo la sua morte quelle forze hanno continuato a determinare le sorti della nazione mentre nessuno potesse o volesse rendersene conto.

Il processo per l’omicidio di Pasolini, la ricerca dei colpevoli, il pruriginoso accanimento sul suo cadavere e la deriva criminologica che da cinquant’anni circonda il caso allontanano le vere responsabilità della coscienza civile, di chi ha dimenticato fingendo di ricordare o ha preferito non ascoltare fingendo di proclamare diritti e nuove ere politiche.

Il lavoro di Celestini come autore della drammaturgia e come interprete si confronta con una materia storica e letteraria di indubbia complessità per la grandezza del personaggio e per la controversa e amplissima parabola storica dagli anni Venti del Novecento italiano attraverso tutto il secolo.

Un carico pesante anche per lo spettatore che con lui fa memoria e deve fare i conti con un peso, nelle battute finali dello spettacolo, oscuro e lucido insieme.

Che ci fa un borghese come lei in questa lercia borgata?, chiede il testimone quando incontra per la prima volta il poeta alla fermata davanti la fabbrica, dove gli operai escono stanchi dal turno di notte.
Ci vivo, risponde il poeta, e ora sto andando a lavoro. Ma un operaio guadagna molto più delle due lire prese alla scuola privata, perché gli domanda il nostro testimone non va anche lui a lavorare in fabbrica.
Tutti gli oggetti prodotti in fabbrica finiranno, finirà anche il capitalismo ma i libri, la poesia, quello che produco io durerà per sempre, è inconsumabile, anche quando io morirò continuerà ad esistere perché la poesia non si consuma.

Va visitato ancora e ancora questo Museo Pasolini, perché non si corra mai il rischio quanto mai attuale di dimenticare, di non ricordare abbastanza, di distorcere e strumentalizzare quella voce e quella poesia.

Museo Pasolini
di e con Ascanio Celestini
Voci Grazia Napoletano e Luigi Celidonio
Musiche Gianluca Casadei
Suono Andrea Pesce
Disegno luci Filip Marocchi
Produzione Fabbrica Srl
Contributo Regione Lazio e Fondo Unico 2021 sullo Spettacolo dal Vivo

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La Sicilia non solo terra d'origine ma luogo dell'anima, culla del teatro e fonte di ispirazione dove nasce l'amore per la scrittura. Dopo una laurea in Comunicazione e una specializzazione in Discipline dello spettacolo, scelgo di diventare giornalista e continuare ad appassionarmi alla realtà e ai suoi riflessi teatrali e cinematografici.

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