Un romanzo del novecento che sembra scritto oggi. La sesta beatitudine di Radclyffe Hall.

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Ho affrontato la lettura di La sesta beatitudine di Radclyffe Hall (Fandango Libri, traduzione di Claudio Marrucci) alla cieca. Quando mi è stato proposto il romanzo, in realtà, non ho neppure letto il nome dell’autrice e, dopo poche pagine, avevo anche dimenticato il titolo. È davvero un’esperienza straordinaria leggere così. Non si hanno aspettative né punti di riferimento, tanto che, in principio, ho pensato fosse stato scritto da un’autrice contemporanea. Ecco, sul fatto che fosse un’autrice e non un autore non ho avuto alcun dubbio. Solo una donna riesce a scandagliare così in profondità la natura femminile, squarciando veli di pudore e mostrandola nella sua nudità senza timore alcuno.

Voglio parlarvi, in primo luogo, dei protagonisti. Sono due, a mio avviso: Hannah Bullen e Croft Lane. Hannah ha trent’anni, ma pare ne abbia vissuti molti di più, e ha una vita difficile alle spalle. Una famiglia di disadattati, povera gente che solo lei può mantenere, due figlie piccole e bastarde nate da padri diversi di cui si sono perse le tracce, un lavoro di fatica che però la soddisfa ogni oltre misura. Croft Lane è il sobborgo povero di Rother, un’accozzaglia di piccole case fatiscenti, una sorta di baraccopoli dove manca tutto e dove tutti si conoscono, da sempre. Giudicano, osservano, spiano, eppure si amano e si sostengono gli uni con gli altri. Hannah dice sempre che la sua famiglia, i Bullen, è attaccata come la colla. E a me sembra che anche tutti gli abitanti di Croft Lane lo siano, una grande famiglia attaccata con la colla.

Tutto il racconto dura un anno, da gennaio a gennaio, e si dipana come una sorta di calendario dell’avvento, perché qualcosa sta per accadere, qualcosa che cambierà tutto, che sconvolgerà il quieto vivere di quei poveri tra i poveri che, nonostante tutto, mantengono inalterata la loro dignità e il loro orgoglio. La narrazione passa agevolmente dalla prima persona – quando Hannah racconta – alla terza, quando un io narrante che molto somiglia alla coscienza di Hannah, interviene per darci una visuale più ampia. Straordinarie le descrizioni della natura circostante: la palude di Romney, i prati verdi, il mare, il canale della Manica, i campi di luppolo, il bestiame al pascolo. Forse proprio la Natura, intesa come madre e protettrice, è il terzo protagonista di questa storia. Una Natura benigna, che non tradisce e nella quale Hannah si identifica e da cui trae forza.

In certi momenti ho quasi odiato questa ragazza. La sua arrendevolezza, il suo spirito di abnegazione, la sua capacità di perdonare e di accogliere sempre e comunque. Eppure non è una ragazza “buona” Hannah, non come pura accezione del termine, anzi. In fondo è una poco di buono, una che si lascia andare agli istinti, una che non disdegna il sesso per soddisfare i suoi bisogni impellenti, che si risvegliano in primavera, come le piante e gli animali. Hannah è la madre terra, e ne segue il ritmo. Ama le sue figlie, Ermie più di Doris, e ama tutti i figli di Croft Lane, e ama i muri scrostati delle case, le pareti di quercia antica, l’odore della legna che brucia nei caminetti. Ama pulire i pavimenti fino a farli risplendere, ama cucinare, rassettare, lavare, come se, pulendo tutto ciò che è fuori di lei, per osmosi anche lei stessa possa uscirne ripulita. Hannah, Croft Lane, la Natura, vivono questo ciclo di un anno senza sensi di colpa, purché tutto rimanga com’è. Ma il progresso avanza. Prima arriva l’elettricità – e qui mi è sorto il dubbio che non si trattasse di un’autrice contemporanea. Certi dettagli bisogna averli vissuti per raccontarli così, – poi si decide di costruire le case popolari e Croft Lane rischia di essere rasa al suolo. Inaccettabile. Solo un evento naturale potrà far “morire” Croft Lane con la dignità intatta.

Io non voglio raccontare altro della vicenda, voglio solo lasciarvi con il desiderio di leggere questo libro, non facile, ma intenso e violento e passionale come pochi. In certi momenti, proprio perché non viene mai citata l’epoca di riferimento – un periodo intorno agli anni trenta, credo, – e per il “colore” della narrazione, mi è sembrato di scorgere tratti di Macondo in Cent’anni di solitudine, come pure Hannah mi ha ricordato certe figure femminili di L’amore ai tempi del colera. Se non avessi letto chiaramente i luoghi in cui la storia si svolge, non avrei avuto dubbi nel definirla un’opera sudamericana.

Al termine, quando la lettura ha preso a scorrere velocemente, quando ho cominciato a temere di imbattermi nella parola fine, mi sono dovuta arrendere all’evidenza: certi capolavori non appartengono al nostro tempo. Ci sono autori straordinari oggi, questo sì, ma il coraggio e l’audacia di Radclyffe Hall erano tali proprio perché antesignani di un’epoca che doveva ancora venire. Radclyffe Hall è morta nel 1947 e “La sesta beatitudine” è stato pubblicato, per la prima volta, nel 1936. Qualcuno avrà fatto un bel salto sulla sedia, allora. Oggi tutti noi abbiamo la fortuna di poterne godere.

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Cetta De Luca, scrittrice, editor e blogger vive a Roma. Ha al suo attivo sei pubblicazioni tra romanzi e raccolte poetiche. Lavora nel campo dell'editing come free lance per la narrativa e collabora alla revisione di pubblicazioni di didattica nell'ambito letterario. Cura un blog personale http://www.cettadeluca.wordpress.com e spesso è ospite dei blog Inoltre e Svolgimento.
Nel poco tempo libero che le rimane tra lavoro e figli si impegna nell'organizzazione di eventi per il mondo letterario e, nello specifico, per gli scrittori.

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