Immigrant Songs al MAXXI. Diverse sonorità per una cultura moderna

“Per ravvivare un ricordo non bisogna raffigurarlo, ma trasfigurarlo”

Queste poche parole aprivano un articolo di alcuni giorni fa, in riferimento alla grande tragedia di migrazione avvenuta nelle acque del Mediterraneo lo scorso ottobre 2014.

L’immigrazione caratterizza il nostro paese e la nostra epoca, come in passato ha segnato la storia di altri paesi. Le notizie di sbarchi o tragedie in mare legate ai tentativi di raggiungere il nostro paese, sono ormai all’ordine del giorno e scivolano davanti ai nostri occhi nelle immagini dei telegiornali, sui titoli di giornali o arrivano distrattamente alle nostre orecchie da una radio.
L’orrore, l’ansia, la tristezza finiscono per lasciare in noi il posto allo sconforto, marcando sempre più netto quel distacco tra la nostra esistenza e quella di uomini, donne, bambini provenienti da oltre confine, dove, solo per un cieco destino, sono nati. I sentimenti che suscitano episodi tragici come i naufragi, le rivolte nei Centri di Identificazione ed Espulsione (“luoghi di intollerabile sospensione dei diritti, di forte umiliazione delle dignità personali e di isolamento civile e democratico”), la dispersione in mare di centinaia di corpi ormai senza più nome, sono sentimenti che ci allontanano sempre più e rendono ostili verso le altre civiltà, verso i volti e le vite di queste genti. Innalzano una separazione tra “noi” e “loro” e introducono un senso e una cultura della di diversità.
Esiste, tuttavia, qualcos’altro che questi popoli viaggianti portano con sé attraverso il mare, ed è qualcosa che non entra nei loro piccoli zaini, non si disperde negli orribili barconi, non viene trascinato via dallo sconforto e dalla paura. Le loro storie, le loro tradizioni, la cultura delle loro terre arrivano nelle nostre città, insieme a loro e si miscelano alla cultura locale, creando quello che è un paese moderno.

Cambiare punto di osservazione o, meglio, modalità di ascolto, per riuscire ad intravedere la ricchezza culturale e umana che i migranti ci trasmettono è il punto di partenza delle due installazioni presenti al museo MAXXI, riunite sotto l’unico titolo Immigrant songs.
I due progetti riflettono l’interesse che “l’arte contemporanea sempre più mostra nel voler indagare temi sociali”, ricorda il curatore del progetto e direttore del museo Hou Hanru, lo avevamo visto in questi spazi con la mostra Utopia for sale e lo vedremo con Open museum Open city, straordinario “evento” che inonderà letteralmente ogni angolo del museo dal prossimo novembre.
I due artisti, Angelica Mesiti e Malik Nejmi, australiana residente in Francia la prima e francese di origini marocchine il secondo, scelgono il suono e la musica come protagonisti dei due lavori in mostra.
Il suono ci offre la possibilità di ascoltare i migranti, oltre che osservarli da un’altra angolazione. Il suono risveglia nuova attenzione ed accende inedite percezioni di storie, tradizioni, speranze e coraggio. Ci specifica Hanru:

“Il suono” è qualcosa che puoi ascoltare, vivere, condividere, ma non puoi possedere. È importante pensare che la questione della sopravvivenza e della sofferenza si leghi ai movimenti migratori. Ma è esatto riconoscere come anche queste persone abbiano diritto all’immaginazione, alla poesia”.

Al centro dell’installazione Citizens Band, di Angelica Mesiti, è proprio l’immaginazione ad accendersi improvvisa. Uno schermo alla volta si illumina nella sala scura e presenta gli abitanti stranieri nelle nuove città di adozione,
che in luoghi anonimi, per la strada o in metropolitana, liberano suoni, ritmi, musica per narrare chi sono. Una ragazza africana, nella piscina comunale di Parigi, percuote l’acqua come fosse un tamburo, riprendendo un’antica tradizione familiare e richiamando in me inaspettatamente il suono delle onde battute dagli scafi che solcano il Mediterraneo trasportando folle di persone. Con grazia e grinta agita le braccia sull’acqua fino all’ultimo suono prima di lasciarsi scivolare, felice, nella vasca.
Altro schermo, altra storia: un ragazzo suona in metropolitana, occhi semichiusi e una tastiera sulla spalla, come fosse un violino. La sua voce canta una dolce melodia, sovrasta il rumore delle rotaie, ammutolisce i viaggiatori persi dietro le loro corse. Altro schermo, terza storia: un ragazzo mongolo siede diritto su uno sgabello abbracciando uno strumento a corde, dal disegno antico e sconosciuto; pizzicando le corde si unisce al suono con la voce che, muovendo impercettibilmente le labbra, fuoriesce dalla gola, potente, profonda, come una melodia sacra che ti trasporta altrove, in luoghi deserti e lontani. Ultimo schermo, quarta storia: in una macchina in sosta, un uomo imponente è seduto al termine di una lunga giornata. Chiude gli occhi in cerca di riposo e, istintivamente, inizia a fischiettare, un fischio lieve, ma sempre più lungo, che avvolge l’ascoltatore, lo trascina via con virtuosismi fatti di soffi melodiosi. Quando il fischio si assopisce e l’immagine dissolve rimane solo il tamburellare delle sue dita che accompagna il silenzio.

Nella seconda sala il lavoro di Malik Nejmi, dal titolo 4160, è un diario di viaggio, intimo e condiviso, fatto di piccoli gesti, suoni e musiche di ieri e di oggi, miste a voci, preghiere, sospiri. Come in ascolto di un “canto dell’immigrazione”, su due riquadri affiancati come due cartoline sul grande muro della sala, scorrono immagini per raccontare il viaggio a ritroso compiuto dall’artista verso il Marocco, paese d’origine. È un viaggio-progetto work-in-progress (concepito durante la residenza all’Accademia di Francia lo scorso anno) che si arricchisce sempre di nuovi suoni e nuove immagini, riportate in modo non lineare ma confuso, come lo sono i ricordi, nei quali tuttavia è possibile distinguere alcuni oggetti e isolare alcuni rumori che costantemente tornano, persistono, ci accompagnano. La danza di una bambina, i giochi silenziosi tra fratelli, stringendo a sé un vecchio cuscino o nascondendosi tra foulard, cartoline e libri scritti in arabo. L’avanzamento nelle strade sabbiose e semideserte della città, la vista del mare infinito lungo l’orizzonte e il rumore sordo, cupo, profondo come quello che parte dal cuore di una nave, che pian piano diminuisce, si perde in mare, e lascia il posto a suoni vaghi, lievi, meccanici, elettronici. A volte sembra di riconoscerli, rumori presi dalla strada o bisbigli di voci diverse. Le immagini chiare, perse nella luce e le sonorità miste a rumori compongono un testo poetico e delicato.
Il soundtrack del video, realizzato dallo stesso Malik e dal musicista Mathieu Gaborit – anche lui con una borsa presente in Accademia- è stato ricomposto e registrato da entrambi sabato 11 ottobre, in occasione della Giornata del Contemporaneo AMACI durante una performance al Maxxi.

L’opera 4160 è stata acquisita dal Museo.

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Francesca Campli ha una laurea in Storia e Conservazione del Patrimonio artistico e una specialistica in Arte Contemporanea con una tesi sul rapporto tra disegno e video. La sua predilizione per linguaggi artistici contemporanei abbatte i confini tra le diverse discipline, portando avanti ricerche che si legano ogni volta a precisi territori e situazioni. La passione per la comunicazione e per il continuo confronto si traducono nelle eterogenee attività che pratica, spaziando dal ruolo di critica e curatrice e quello di educatrice e mediatrice d'arte, spinta dal desiderio di avviare sinergie e confrontarsi con pubblici sempre diversi.

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