Uno sguardo sempre da rinnovare. La solitudine dei monumenti

Samorì

Tornare a Foligno, passare le mura attraverso le sue porte, percorrere l’elegante e dispersiva geometria di strade tessute insieme, fiancheggiare le splendide facciate medievali per spuntare poi nelle piazze abitate da palazzi signorili e chiese in pietre che hanno attraversato millenni, ogni volta questo piccolo viaggio regala stupore, colmando gli occhi di meravigliose immagini.

Proprio intorno allo sguardo si muovono gli eventi che in questo principio di autunno illuminano questa città: il nostro sguardo sul mondo che attraversiamo e lo sguardo che il mondo posa su di noi. Capovolgendo l’abituale prospettiva, infatti, ci si trova a riflettere sull’occhio delle architetture e delle opere scultoree o pittoriche che, intorno a noi, sopravvivono allo scorrere del tempo diventando loro stesse testimoni dell’agire umano o aprendo nuove letture di interpretazione nel riflettere la realtà che le circonda.

Elemento di celebrazione”, “depositario di memoria collettiva”, “oggetto simbolico”: queste alcune chiavi interpretative che Marta Silvi, storica dell’arte, tira fuori per stimolare una riflessione sull’oggetto monumento nella nostra epoca -parte del nostro bagaglio culturale, ma anche elemento persistente nel tempo, di significato malleabile e mutante- e porlo al centro della mostra da lei presentata nel settecentesco Palazzo Candiotti.

All’interno de La solitudine dei monumenti troviamo i lavori di quattro artisti, passati già tutti di qui, poiché coinvolti (dalla stessa Silvi) negli ultimi quattro anni, nella produzione dei Palii della celebre Giostra della Quintana, manifestazione storica legata a Foligno che quest’anno festeggia la sua settantesima edizione. Con linguaggi molto differenti, queste quattro voci hanno offerto, in quest’occasione, diverse letture dell’idea di monumento, spaziando da un segno più figurativo a uno più astratto, da opere pittoriche a installazioni con vari materiali o video.

L’idea di monumento stimola diverse riflessioni e, nelle interpretazioni suscitate, gli artisti si spingono molto al di là del concetto di manufatto celebrativo o depositario di memoria, portando l’attenzione su aspetti che riguardano più da vicino l’essere umano, le sue necessità il suo rapporto con la Storia e con le storie individuali.

Così il pollice di Matteo Fato (Senza titolo[Cose Naturali]) –“uno e trio” sulla scia del dibattito concettuale intorno alle possibilità della rappresentazione – richiama un’idea di monumento necessariamente legata all’uomo, al suo agire e alla sua ineguagliabile capacità creativa. Il suo sottile tono ironico lo rintracciamo anche nel ritratto di dama muta (Senza Titolo, 1507-2015) qualche sala più avanti, nel quale l’osservatore si ritrova affiancato, sul riflesso del supporto specchiante, ad una dama che nella posa austera fa eco alle dame rinascimentali, se non fosse per un sottile neon che taglia, attraversandola per orizzontale, il suo volto, esattamente sulla bocca, come a voler zittire la testimonianza da lei trasmessa.

Nelle statuarie figure distese su un prato (e nel tratto quasi ancora abbozzato) che campeggiano nella grande tela di Stefano Emili (Fiastra) c’è, invece, un sentimento di isolamento e insieme di quasi invisibilità. Mentre qualcosa di intimo e silenzioso traspare dalle preziose stampe che Gabriele Porta realizza con ritratti su cartavetrata (You take care glitter boy #) e ancora più nei volti che disegna all’interno di una vecchia edizione di Ragazzi di vita, celebrando figurativamente la vita quotidiana dei ragazzi pasoliniani. Tomaso de Luca si confronta con un soggetto classico com’è Anchise, il vecchio padre di Enea, e lo fa scegliendo di abbandonare ogni classica iconografia e lasciando solo frasi e quesiti che si interrogano su un’immagine come quella, sopravvissuta iconograficamente negli anni e portatrice di significati sempre attuali. La monumentalità e l’austerità si perde anche negli instabili assemblage che de Luca crea, quasi con tono di sfida verso la resistenza e solidità dei classici monumenti. Ci riporta ancora più sul tema dello sguardo, il Carillon di Stefano Emili che crea un gioco voyeuristico tra lo spettatore e l’opera stessa, in parte seminascosta e immersa nell’oscurità.

Un altro punto di osservazione con il passato, con l’opera d’arte, con ciò che offrono al nostro sguardo, lo apre anche Nicola Samorì, l’utimo artista coinvolto nella realizzazione dei Palii in quest’ultima edizione e chiamato a Foligno ora a raccontare la sua ricerca artistica. Durante un talk al CIAC_Centro Italiano di Arte Contemporanea, cantiere stimolante e propositivo di idee e nuovi punti di riferimento, Samorì parla della sua pittura e delle sue tele “scarnificate”, insieme alla curatrice Marta Silvi e a Pier Luigi Metelli, direttore della Commissione Palii della Giostra della Quintana.

Il punto di partenza è il rapporto con il tempo (non solo con i soggetti del ‘400 e ‘500 dai quali parte l’artista nei suoi lavori, ma anche la relazione con un evento tradizionale che ha le sue radici nel passato com’è la Giostra della Quintana, che ogni anno si rinnova, proprio nel coinvolgimento di nuovi attori della ricerca artistica contemporanea) che Samorì vive in modo “disinvolto”. In questo approccio vi è una privazione dell’aurea appartenente all’opera d’arte antica che diventa così pura materia. Ci illuminano le parole dello storico dell’arte Italo Tomassoni, in apertura di questo incontro, che riconosce a Samorì l’“aver trovato nella materia nuove possibilità di racconto, rendendola così autonoma”. Nell’atto di creazione, l’artista spinge molto al di là l’osservazione che ha dell’oggetto e, se “riporta l’arte nella sfera del visivo” – sottolinea sempre Tommassoni – non si ferma però a questo livello, va oltre, anzi – potremo dire – scende proprio nelle profondità, “si sofferma nella parte più inquietante del corpo umano”, adottando un vero processo di scarnificazione della materia che così diventa oggetto principale della nostra osservazione, facendo anche vivere l’opera stessa “non più come un’esperienza pittorica, ma tattile, plastica”, come lo stesso Samorì rivela: ci troviamo di fronte ad “una pittura che parte da una visione dell’occhio e avanza verso una cecità progressiva”, secondo un processo che va perdendo la forma iniziale e “alla nostra visione lascia solo un brandello”. E sempre citando l’intervento dell’artista: “lo sguardo, a questo punto, ritornerà sotto varie forme: le opere, nella trasformazione che subiscono, acquisiscono nuove possibilità di lettura e interpretazione”.

In questo processo creativo Samorì realizza un vero “atto di liberazione” della materia stessa, ma anche dell’artista che “lascia esplodere la sua creatività, dopo una prima fase di costruzione dell’immagine e di sedimentazione studiata e attentamente ricercata”.

Anche il nostro sguardo raggiunge una liberazione, inaugurando nuovi percorsi di esplorazione dell’opera, del suo significato e dei significati che con il tempo si vanno sedimentando e fondendo l’uno con l’altro, nell’intento di ottenere una lettura della realtà sempre contemporanea e mai definitiva.

Info mostra

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Francesca Campli ha una laurea in Storia e Conservazione del Patrimonio artistico e una specialistica in Arte Contemporanea con una tesi sul rapporto tra disegno e video. La sua predilizione per linguaggi artistici contemporanei abbatte i confini tra le diverse discipline, portando avanti ricerche che si legano ogni volta a precisi territori e situazioni. La passione per la comunicazione e per il continuo confronto si traducono nelle eterogenee attività che pratica, spaziando dal ruolo di critica e curatrice e quello di educatrice e mediatrice d'arte, spinta dal desiderio di avviare sinergie e confrontarsi con pubblici sempre diversi.

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