La tredicesima notte. Complici della luce

Un brivido. Un matrimonio stralunato. Un incontro d’amore senza freni o resistenze, di passione e colori che si accendono nel buio, quello tra Imogen Kusch, regista de La tredicesima notte, andato in scena presso il Teatro Sala Uno di Roma, e William Shakespeare.
Testimoni i personaggi, unici, indimenticabili del Bardo, nella loro umanità fatta di grandezze e miserie, ragione e follia, aspirazioni e cadute. Fragili, nel loro scorrere sulla scena, prigionieri di una bolla, di un sogno,della vita stessa, che li confina in uno spazio chiuso, in cerca di una via d’uscita.
Sono le parole di Shakespeare, acuminate, tenere, rudi, sublimi, a scavare dentro i personaggi, a scoprirne le vene, a far scorrere il sangue, ad inventare  per loro un mondo nuovo, un riscatto. A renderli uomini e donne reali, vulnerabili e veri. Al loro primo apparire, sembrano vagabondi, senza terra, senza casa, sperduti in una confusione di voci, grida, vento, suoni metallici, Iago, Amleto, Macbeth, Lear, Goneril, Ermione, Rosalinda, Riccardo di Gloucester… Costretti a lasciare cose e affetti, nella mani di un destino che li vuole esuli, da sé stessi e dagli altri.

Il loro approdo è la notte, è un luogo sconosciuto… Si guardano, non si riconoscono, si studiano, si avvicinano con prudenza, in cerca di un’essenza, di una giustificazione, di una risposta all’incertezze del loro esistere. Sono così moderni, così vicini a noi, alla nostri deliri contemporanei, questi esseri  tormentati, intelligenze ed animi disorientati… Si prendono un posto provvisorio  nel palco come nella vita. Si piantano simbolicamente luci in faccia in una ricerca interiore di identità, rifugiati in un vuoto, in un non essere che li rende evanescenti. Sognano? Vivono? Quale dunque, il loro senso? Tutte le tematiche care a Shakespeare vengono qui affrontate, il posto dell’uomo nell’universo, l’illusorietà delle cose, la vecchiaia, il rapporto padre-figli, il bene e il male, il sogno, la follia, l’amore, la coscienza, il caso, il ruolo dell’arte, e specialmente quello del teatro.

Gli interpreti di questo spettacolo, bravissimi, si alternano nella costruzione interiore e progressiva dei personaggi , dando loro una cruda ma necessaria consapevolezza, per una dignità nuova. Punto per una fuga diversa, ritorno ad uno stato primigenio, catarsi. “Cresci, fiorisci”, dice Lear. Questa è la possibilità data, al di là delle illusioni, delle inevitabili condizioni dell’esistenza: la  verità dell’animo umano, che ciascuno da solo deve faticosamente scoprire, illuminare. Con onestà, che “manda in bestia quelli su cui lavora”.  Il filo della follia tesse le vite dei nostri “rifugiati”, in bilico tra bene e male. E l’anima è un abisso che spaventa. “Mi fa spavento, l’anima vostra…”

L’anima invidiosa, e la parola libera e cattiva, pronunciata da Iago, portano Desdemona alla morte per mano di Otello. Iago ha convinto Otello del tradimento di Desdemona sua sposa con Cassio, e Otello, impazzito di gelosia, l’ha uccisa. “Demand me nothing, what you know you know/From this time forth I never will speak words”. Alla richieste di spiegazioni di Otello, Iago contrappone un mutismo ostinato:“Non domandatemi nulla. Quel che sapete sapete. Da ora in poi, non dirò più una parola”.   “Io non sono quello che sono”, afferma “l’onesto Iago”, in questo luogo di dispersi, dove si racconta senza silenzi o remore, di nuovo con la parola per cappello, nell’interpretazione possente e raffinata di Paolo Di Giorgio, che armeggia in scena con lampade e cavalletto.

Luminoso, nel buio delle sue ossessioni, forte, degno di compassione umana, il Lear tratteggiato con maestria evidente da Raffaella D’Avella.
Lear è solo un “povero vecchio, informe, debole, derelitto”, si trascina nel mondo tirandosi dietro in un carrello i suoi peccati, ira, arroganza… In scena è un barbone, una stola di volpi intorno al collo tradisce le origini regali, l’abitudine al comando sta nella parola, nella decisione nel pronunciarla. Una sedia accoglie la sua riflessione sullo stato di uomini e cose, la sua tempesta interiore, e le sue resistenze alle vicende mutate e inesorabili di un essere la cui potenza appartiene al passato. Ha perso tutto, trono, ragione, cedendo il regno alle figlie irriconoscenti, Goneril e Regan, furioso con la terza, la disinteressata e certo più amorosa Cordelia. Goneril, una ispirata e intensa Maria Borgese, è la figlia di Lear, inquieta, in perenne ricerca di qualcosa che possa metterla al riparo da se stessa, dai sentimenti che la invadono, dall’ambizione, dall’invidia per la sorella Regan, dalla gelosia.

Bianca, leggera ed eterea Ermione, Silvia Mazzotta infonde con grazia e giusto equilibrio al suo personaggio la positività che lo caratterizza. Le cattiverie da parte del marito, spezzano i sogni puri di Ermione.  E’ una principessa distante dal male, che finisce nell’incubo accompagnata dal suo ingiusto dolore, da vivere insieme ai suoi compagni di rifugio. L’amore per Orlando è così forte, Rosalinda non può rinunciarvi… Francesca Olivi incarna una Rosalinda moderna ed incisiva, che non si rassegna al buio di questo nuovo spazio, di  una vita senza l’incanto di Arden, luogo di felicità. Manca  Orlando, manca l’amore, stato mutevole, la cui ragione è nel Tempo.

È giovane e intelligente, Amleto, perspicace, pronto a vivere una vita piena di sfumature sottili. Ma non pronto a fronteggiare il dramma che sconvolge la sua vita, l’uccisione del re di Danimarca, suo padre, per mano del fratello. Che sposerà poi la madre di Amleto. Ne interpreta con fascino morbido e belle coloriture la follia, Beniamino Zannone. Una follia che è essa stessa rifugio, una follia che Amleto qui depone al cospetto di Lear, degli altri, riconoscendo le sue ansie, la sua incapacità di vivere, la sua tristezza nel constatare che intorno“c’è puzza di mortalità”. “Che capolavoro, è l’uomo[…]. Ebbene, per me non è che una quintessenza di polvere”.

All the world’s a stage/and all the men and women merely players./They  have their exits and their entrances/and one man in his time plays many parts…(Tutto il mondo è teatro, e gli uomini e le donne tutti puri istrioni: hanno le loro entrate e le loro uscite di scena, e ognuno recita diverse parti nella vita…)”. Tutta la perfezione dei personaggi shakespeariani, e dell’umanità che essi così bene rappresentano, sta nella loro imperfezione, riconoscibile universalmente,vicina alle nostre contemporanee miserie, ai sempre più rari splendori. Imperfetto, dalla nascita, è Riccardo di Gloucester, interpretato da una energica  Marta Iacopini. Nato con i denti, per mordere il mondo, in una scalata di ambizione e sangue, affamato di potere… E impotente, fragile, al termine delle sue crudeltà: “A horse! A horse!My Kingdom for a horse!(Il mio regno! Il mio regno per un cavallo!)”. Nella scura emarginazione in cui è confinato con gli altri, è l’amore a disegnarlo uomo, e non solo bestia.

Ambizione e amore sono le colpe di Macbeth, personaggio sanguigno, ben definito da Giorgio Santangelo nelle sue complesse connotazioni. Un amore inesorabile, fatto di perversione, di tragica dipendenza, quello per Lady Macbeth, in contrasto con una natura “troppo piena del latte dell’umana tenerezza”. Senza la sua Lady, Macbeth da solo nel rifugio, perde la sua crudeltà. Come quella di altri uomini e donne, la sua sembra allora una favola “tutta rumore e furia, contata da un idiota, che non significa nulla“.

Lo sguardo in se stessi, una nuova luce interiore, una trasformata coscienza, condurranno forse fuori questi esseri dal nulla-incubo che li racchiude. Resta il Re, resta Lear, con le sue parole: “Guarderemo in faccia il mistero delle cose[…] fluenti e rifluenti, come le maree, nel giro della luna…”. Restano la magnificenza e la polvere del palcoscenico,della vita, che Shakespeare descrive in chiaroscuri fenomenali.

Uno spettacolo audace, La tredicesima notte, realizzato da CST Centro Spettacoli Teatrali e Klesidra. Con musiche originali notevoli, composte ed eseguite da Sergio Ferrari, Andrea Mieli e Valentina Crescimanni, e scenografie ed ambientazione suggestive, a cura di Ilaria Sadun e Fabrizio Cicero. Esperimento riuscito grazie ad una regia intelligente e appassionata, ad attori duttili e versatili.

Canto per Shakespeare, per il teatro e i suoi attori, canto per l’Uomo. Che lascia la sensazione di una primavera possibile,di qualcosa che può sfiorarci ancora. Perché qualcosa, nella “notte fosca, come un gioiello sospesa/fa seducente il buio e la sua faccia vecchia, nuova”.

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Tullia Ranieri ha al suo attivo numerose esperienze artistiche. Scrittrice e attrice, collabora con varie Associazioni culturali. Suoi testi sono pubblicati in Antologie varie e su siti Internet. Si è dedicata a progetti sperimentali di diffusione della poesia nelle scuole e alla scrittura e regia di spettacoli e percorsi poetici. Fa parte del gruppo di Scrittura Collettiva di Fefé Editore. Adora Adonis.

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