Book City 2016 – fermati, raccontami, racconta Milano

È una Milano grigissima e fredda quella che accoglie i 160 000 visitatori di Book City, il festival letterario ormai arrivato alla sua quinta edizione. Una Milano come la immaginavo da piccola, con i grattacieli di Piazza Gae Aulenti tagliati dalla nebbia e le decorazioni di Natale un po’ tristi e un po’ precoci. La Milano della Metro e della Borsa, la Milano che non sorride perché va di fretta. La Milano che fa, che produce, che deve che deve che deve.

È quasi a sorpresa, allora, che trova il suo spazio proprio qui questo enorme annuale appuntamento con il libro e la lettura. O direi meglio: con la parola: scritta, ma anche orale, ma anche recitata, anche cantata, perfino mostrata nel perimetro stretto di una fotografia.

Ancora una volta, ancora con entusiasmo, ancora senza risparmiarsi, il capoluogo lombardo si trasforma per quattro giorni – 17/20 novembre – in Book City: la città del libro, la città delle parole e di chi le racconta. E di chi – soprattutto – si prende il tempo di ascoltarle.

Forse proprio questo più di tutto colpisce, più di tutto lascia meravigliati: in 260 sedi disperse per il tessuto urbano, Milano si ferma e si prende il tempo di farsi raccontare, di farsi ascoltare.

Deposta o dimenticata o rotta la maglia stretta delle necessità, prende respiro, riscopre il valore del libro. Che non è solo la copertina, la carta, l’inchiostro: il libro come storia, storia di me che scrivo e di tutte quante le mie sofferenze, storia di te che ascolti perché ho deciso di regalarmi, ma se tu non fossi disposto ad accettarmi forse raccontare non avrebbe più senso. Storia che apre un varco ovunque, anche per strada anche sulla metropolitana, un varco verso una vita altra, un mondo altro, un mondo possibile ma tanto autentico da far piangere, da far innamorare.

Il libro, insomma, come zona franca: che istituisce le proprie regole, che stabilisce i propri territori.

Milano diventa così Book City nel senso più letterale del termine: è città–libro, è zona liminale, di frontiera, dove trovano spazio e libertà di espressione tutte quante le voci che hanno qualcosa da dire.  E non si bada nemmeno (eccessivamente) al grande nome: sono gli editori indipendenti a fare da padroni, a organizzare eventi e feste a base di swing, vino e pubbliche letture. Sono i dimenticati, gli eternamente afoni, i da sempre afasici a trovare in questa quinta edizione maggiore accoglienza: dall’apertura d’eccezione con la scrittrice turca Elif Shafak, passando per le numerose iniziative dedicate a Budapest e alla sua rivoluzione, che proprio nel 2016 compie 60 anni.

Una Milano grigissima e fredda – dunque – quella che riscopro insieme a chi, come me, non l’ha data vinta alla pioggia. Una Milano che mi incanta perché, dopo anni di treni cancellati e metro prese al contrario e sempre sempre il vestito sbagliato, torna a cercarmi – anche solo per parlare. E per farlo non sceglie una lingua in particolare. O meglio le sceglie tutte. O meglio: non ne sceglie nessuna. Nessuna se non quella del bisogno di dirti, di farti sentire quello che sento io.

Mi ritrovo così sprofondata nelle sedie dell’istituto Marcelline Tommaseo, ad ascoltare Nabil Salameh – traduttore del poeta arabo Nizar Qabbani – che mi racconta cosa vuol dire comprarli sulle bancarelle di Tripoli quei libretti che parlano d’amore e di libertà e di sesso e nasconderli veloce sotto il cuscino, quando la mamma entra in camera. E come lui mi emoziono quando lo immagino scoprire per la prima volta in cucina le sorelle che tranquillamente leggono:

Non è rimasto seno bianco o nero
Su cui non abbia issato la mia bandiera

E come lui piango quando nella penombra sento – nella mia lingua e nella sua – ti ho lasciato scegliere…quindi scegli/ tra morire sul mio petto/ o sui quaderni delle mie poesie.

Ma mi parla anche di Sara Munari, giovanissima fotografa milanese che in otto anni percorre a piedi tredici paesi dell’Est Europa con la macchina fotografica e un progetto che cresce mentre cresce anche lei: “ho letto che durante il regime i bambini potevano leggere solo ciò che decideva il governo: io volevo restituire le favole ai bambini”. Così i suoi scatti non sono mai immagini ma narrazioni in cui il soggetto si trova senza volerlo imprigionato, senza saperlo protagonista di un mondo in cui si sospendono le regole del tempo e dello spazio e tutto quanto è retto da un sottile, delicatissimo equilibrio.

Milano grigissima e fredda che sembra dimenticare tutti quanti i problemi, tutte quante le polemiche, sembra scordarsi perfino della materialità rigida dei suoi confini. La città è una zona franca per ogni viaggiatore, per ogni esploratore. O ancora: la città è mondo, un’isola, un rifugio. Tanto più se dall’Est Europa, invece, si scappa – come Jovica Momcilovic, che nella sua Sarajevo non ritorna dal 1992 e non ci vuole più tornare perché lì cercherei me e io lì non ci sono più.

Mi guarda negli occhi mentre parliamo prima della presentazione del suo libro Emigrant: la guerra è una cosa vera – dice-  reale. La guerra è onesta perché la gente si odia e si ammazza anche quando la guerra non c’è. Ma io scrivo d’amore perché è quella la cosa più vera di tutte.”

Ne scrive su libri stretti e lunghissimi, verticali perché verticale – racconta la sua editrice – è come si è dovuto fare l’uomo per poter usare la bocca per parlare e non per portare il cibo e le mani – solo fra tutti – per tracciare segni.
La sua storia è quella di un uomo costretto a scappare, che dei suoi trent’anni in valigia ha potuto mettere soltanto un asciugamano. Oggi vive a Bergamo, oggi si sente ancora extracomunitario, oggi possiede ancora lo stesso asciugamano. Ma al MUDEC – dove si svolge la sua presentazione-  sembra stare a casa propria: fa suonare musiche balcaniche, recita, canta, scherza, bacia la moglie.

Così Book City di Milano inghiotte anche l’ostilità, l’orgoglio, il vanto dell’identità: Milano è un’enorme pagina bianca che raccoglie in uno spazio, in un tempo limitato racconti che per nascere hanno impiegato migliaia, milioni di chilometri e di giorni. Cosa che – a ben pensare – sanno fare solo i libri e le città.

Così Book City fa il miracolo: trova il tempo, trova il coraggio di scommettere ancora sulla dimensione intimissima dell’io-che-parlo-con-te. Senza fretta, senza scopi, senza profitti. Anche se in realtà qualcosa di più mi sembra di portarlo a casa, mentre corro al solito binario per non perdere il solito treno e da vicino mi spingono quando vado troppo piano.

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Nata a Parma nel 1995 e qui incamminata sulla via degli studi umanistici, dal 2014 risiede al Collegio Ghislieri di Pavia. Nell'Ateneo della città studia Lettere Moderne e muove i primi, incerti, decisi passi verso la Storia dell'Arte Contemporanea. Sprovvista della esperienze e della sicurezza che occorrerebbero per parlare di se stessa in terza persona, si limita a seguire ogni strada buona con tutti gli strumenti possibili - che siano un libro, una valigia, un biglietto del cinema. Non sa quello che è, non sa quello che vorrebbe diventare: in mezzo, la voglia di non risparmiarsi e una passione sempiterna per la scrittura e per la cultura dell'Europa centro orientale.

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