Instagrammable Klimt. Sull’arte vaporizzabile e altre sciagure

immagine per Klimt Experience
Sullo schermo centrale G. Klimt, Giuditta I, olio su tela, 1901, Oesterreichische Galerie im Belvedere, Vienna. Negli schermi laterali G. Klimt, Giuditta II, olio su tela, 1909, Galleria Internazionale d’Arte Moderna-Ca’ Pesaro, Venezia.

Klimt Experience al MUDEC – Milano, fino al 7 gennaio 2018.

Una ragazza bionda, sulla ventina. Si alza dal pavimento e si avvicina alla parete: i vestiti le si accendono di blu e oro mentre il ritratto di Emilie Flöge si deforma salendo molle sulle pareti e sulle sue braccia.

Il tempo di una foto e di una risata imbarazzata: in sala la stiamo guardando tutti. Torna a sedersi vicino all’amica e guarda lo schermo del telefono ancora per un po’. L’ha pubblicata su qualche Social, credo. D’altronde, questa proiezione parietale in loop il MUDEC l’ha chiamata Klimt Experience ed è sacrosanto che l’esperienza trovi la sua ragion d’essere nella condivisione.

È forse per questo che siamo una trentina, seduti sulla moquette scura di un’enorme stanza nera, bisbigliando qualcosa alla persona di fianco mentre i quadri che hanno fatto grande Vienna scorrono sulle pareti al ritmo di valzer. In più: qualche intermezzo grafico di dubbio gusto come le note che vorticano intorno a La Musica I o le fiamme che precedono l’apparizione di Giuditta. Come essere al cinema, insomma, a vedere qualche film che ha decisamente risparmiato sugli effetti speciali.

Presentando la sua Klimt Experience, il MUDEC parla di “excursus multisensoriale”, ovvero di “un nuovo modello di fruizione dell’opera d’arte attraverso le potenzialità sempre più allargate delle nuove tecnologie” Ci vado insieme a un’amica, una di quelle che di arte dice di non saperne nulla ma di volerne capire di più. Cominciamo da qualcosa di semplice – penso – da qualcosa di coinvolgente.

D’altronde, le premesse c’erano tutte: (sempre dal sito del MUDEC) “entusiasmare, affascinare, emozionare e meravigliare il pubblico di giovani e adulti invitandoli ad approfondire la conoscenza del maestro […] in un’unica “experience-room” il visitatore potrà vivere un’esperienza immersiva a 360° che coinvolgerà tutto lo spazio disponibile senza soluzione di continuità “[…] Un mondo simbolico, enigmatico e sensuale riprodotto con eccezionale impatto visivo grazie al sistema Matrix X-Dimension, progettato in esclusiva per questa video installazione”.

A livello concettuale, nulla di sbagliato. Anzi. L’imperativo categorico di una fruizione unicamente visiva è uno dei grandi fardelli della cultura museale. L’opera d’arte prima conosciuta nelle pagine di un libro liceale e poi riconosciuta sulle pareti di un white cube è intoccabile, inavvicinabile, sigillata dietro più strati di vetro antiproiettile e sensori laser. Ha fallito in partenza, ha mancato il suo scopo. Diventa un feticcio intriso di significati criptici, ai limiti del simulacro religioso.

Lontana dalla sacralità vissuta delle icone da baciare e portare nella quotidianità di un taschino, assume lo statuto intangibile di una reliquia ormai arida e affogata nell’oro. Fuor di metafora: è sterile, non parla. O meglio: non fa parlare.

Franco Vaccari, nel suo Fotografia e inconscio tecnologico, chiama l’artista un innescatore: il primo motore (non necessariamente immobile) di un processo che coinvolga direttamente l’osservatore. Difficile che questo accada se ci si trova davanti una serie più o meno muta di tele allarmate appese a un muro bianco. Lodevole quindi – per tornare alla Klimt Experience – il tentativo del MUDEC di creare una realtà inclusiva, multisensoriale.

Meno lodevole la modalità di realizzazione: l’apparato informativo dei cartelloni iniziali si integra a fatica con la proiezione che, nell’ora abbondante della sua durata, risulta fondamentalmente un’esperienza passiva, poco stimolante. Sì, è vero: c’è anche la musica. È vero: le opere sono tantissime e spaziano dai quadri di Klimt alle ricostruzioni della Vienna dell’epoca agli effetti coreografici. Concediamo pure che la proiezione sconfina dalle pareti e abbraccia il soffitto, il pavimento, i visitatori. Ne risulta un bel teatrino, uno sfondo perfetto per una foto su instagram, ma poco di più.

È Achille Bonito Oliva – principe della critica da interpretazione – ad attribuire l’aggettivo vaporizzabile all’arte, o meglio: ad augurarsi che non lo sia. La speranza è che, in un mondo di super-velocità e super-consumo, la profondità di senso dell’opera d’arte non abbia una scadenza a breve termine.

Quanto rimane di tutto ciò nella Klimt Experience? Nei quadri privati della loro materialità e proiettati in loop, nelle foto profilo con Il Bacio sulla faccia? Fin dove si può arrivare per rendere l’arte (teoricamente) più appetibile?

Non ho una risposta certa a queste domande e interrompo qui la mia polemica: l’argomento è ampissimo e sicuramente non cerca soluzioni sbrigative.

Mi rimane la sensazione scomoda di un compromesso indigesto fra l’opera d’arte e la sua diffusione. Come se non ci fosse altro mezzo che la mutilazione, l’appiattimento forzoso in una sterile bidimensionalità. Bidimensionalità da vedere di sfuggita, da apprezzare di sfuggita, da condividere di sfuggita.

Se è allarmante la facilità con cui la contemplazione senza partecipazione porta verso un coma felicemente indotto, altrettanto allarmante è la rapidità con cui, in risposta, si finisce per trasformare la divulgazione artistica in un piatto carosello.

Vaccari scriveva nel 1979, nel 2017 imponiamoci di ricordarlo: un innescatore, all’estremo anche un incendiario. Mai: un intrattenitore.

Nell’era digitale in cui davvero la vaporizzazione, la dissoluzione a breve termine sembra essere il criterio di creazione e distruzione del mondo, crediamo in un’arte che vuole comunicare e soprattutto far discutere, che vuole essere notizia più che fare notizia, che abbia in sé – di nuovo con le parole di Bonito Oliva – “l’intenzionalità della durata e la speranza di costruire una densità del senso non vaporizzabile a breve termine”.

KLIMT Experience

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Nata a Parma nel 1995 e qui incamminata sulla via degli studi umanistici, dal 2014 risiede al Collegio Ghislieri di Pavia. Nell'Ateneo della città studia Lettere Moderne e muove i primi, incerti, decisi passi verso la Storia dell'Arte Contemporanea. Sprovvista della esperienze e della sicurezza che occorrerebbero per parlare di se stessa in terza persona, si limita a seguire ogni strada buona con tutti gli strumenti possibili - che siano un libro, una valigia, un biglietto del cinema. Non sa quello che è, non sa quello che vorrebbe diventare: in mezzo, la voglia di non risparmiarsi e una passione sempiterna per la scrittura e per la cultura dell'Europa centro orientale.

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