La pittura è innata, il sogno è condizione che la eleva. Conversazione con Gianfranco Grosso

“La pittura è innata, è una conseguenza di una dimensione del fare attraverso cui si crea una forma di comunicazione”.

Sono, queste, le parole di Gianfranco Grosso, artista classe ‘72 nato a Cosenza.

Grosso è pittore nel senso ampio del termine: sviluppa un suo personale linguaggio incentrato sull’objet trouvè, linguaggio contestualizzato poi in una realtà artistica dove l’espressività si realizza nell’essere pittorico. Nei primi anni di formazione guarda a Rauschemberg, Rotella, Burri e Vedova, per dare vita, come dice, ad “una nuova pelle dell’opera” che si trasferisce in un “un continuum con l’idea di formulare il lavoro attraverso materiali della contemporaneità.”

Con uno sguardo che si rivolge, fra gli altri, a Duchamp e al Dadaismo, nasce il rapporto con il passato che si declina in una sorta di osmosi continua: “la storia è una concentrazione di dati che hanno un loro peso e di cui bisogna prendere coscienza come ricerca sul periodo temporale-artistico che giunge fino a noi”, da una sua dichiarazione. Grosso, da questo sguardo al passato, arriva quindi a formulare una nuova dimensione pittorica assolutamente propria scardinando le convenzioni. L’artista trova oggetti e fotografie su cui interviene, in mercatini, in collezioni private, attraverso persone che conosce, mentre già da bambino aveva la propensione a manipolarli e a colorali. Le associazioni mentali sono dominanti: attraverso retaggi culturali, storici e sociali, crea delle convergenze che si manifestano negli accostamenti di idee, nell’unione dei materiali, nel dare nuovo senso alle parole e infine nella scelta del titolo che determina il completamento dell’opera.

L’aspetto ludico è una componente essenziale, bisogna però distinguere fra il gioco fine a se stesso e il gioco costruttivo: si può parlare di “gioco serio”. Gianfranco, poi, si confronta con due declinazioni temporali: il tempo assoluto e il tempo relativo. Le immagini fotografiche su cui agisce sono dotate di tempo assoluto, il tempo dello scatto che le ha immortalate; gli oggetti su cui agisce sono dotati anch’essi di tempo assoluto perché oggetti ritrovati e quindi “sospesi”; spesso questi elementi rinnovati sono combinati e in qualsiasi modo egli li trasformi creano un’opera, anch’essa temporalmente assoluta perché nata da un atto interpretativo e creativo, che ha però un tempo relativo nella fruizione di chi vi entra in contatto perché innesca la memoria atavica che ognuno di noi vive in maniera personale in quanto l’ensemble dei materiali ha una sua storia legata spesso ad un passato ormai lontano. Grosso ha iniziato molto presto a lavorare su immagini femminili da cui è affascinato ancora oggi e che narrano della donna in quanto tale, della donna come madre e della donna spirituale – religiosa, secondo l’artista tutte manifestazioni di un’unica entità. Successivamente nasce l’interesse per i neonati come appendice ed espressione dell’essere femminile. Possiamo qui ricordare Three, un’opera che si origina dal ritrovamento di una tavola ottometrica che bisogna guardare da tre metri di distanza, come vi è scritto sopra, e in cui l’artista ha inserito l’immagine di una neonata moltiplicata per tre volte. Non è un caso che ritorni il numero tre, il numero magico per eccellenza: la magia si manifesta nei rituali sciamanici delle culture primitive, come non fare riferimento a Beuys per la sua concezione sciamanica dell’arte; nella tradizione cristiana ritorna il numero tre, anche numero alchemico. Altro numero che stimola l’artista è il sette, sempre numero alchemico e di tradizione cristiana. Sono poi innumerevoli i significati cui sono legati il tre e il sette. In una delle sue ultime opere, Regina, dietro un cartellone con l’immagine della madonna, immagine su cui l’artista interviene con tre cerchi concentrici sulla fronte, si trova un trifoglio su cui disegna un quadrifoglio. In Grosso si può alludere “all’incontro alchemico fra i materiali” nella logica libertà degli accostamenti dotati di senso intrinseco.

Nell’atto della creazione, infatti, Gianfranco non vuole avere legacci, e dichiara:

“nel momento in cui formulo il lavoro sono libero, poi esso prende una sua entità, un immagine che mi piace diventa ciò che deve essere.”

E continua:

“L’arte deve essere un veicolo che si acuisce nel contatto fra persone pensanti per sviluppare ulteriori forze. Il retaggio, ovvero la tua cultura personale, fa sì che durante il lavoro tu abbia riferimenti che contieni e sviluppi anche senza la consapevolezza.”

Le opere dell’artista comprendono l’essenza dell’evocazione nel rapporto con un inconscio persistente e sono oggetto del passaggio Vita/ Morte/ Vita che caratterizza la ciclicità della natura e si può interpretare anche come passaggio per una rinascita psicologica e spirituale dopo una morte interiore. La consapevolezza del superamento della morte negli eventi che si succedono nei secoli, ma anche nel quotidiano, si manifesta nella sua arte come Vita dell’oggetto all’origine, Morte nell’oblio a cui è sottoposto tale oggetto – magari dimenticato e ritrovato in un mercatino, Vita nella creazione attraverso cui Grosso lo trasforma.

La storia artistica di Gianfranco nasce a Venezia, dove ha vissuto per tredici anni diplomandosi nel ’97 all’Accademia di Belle Arti della città e diventando assegnatario di studio a Palazzo Carminati della Fondazione Bevilacqua la Masa fra ’98 e 2003. A Venezia ha incontrato un maestro come Emilio Vedova; del suo rapporto con il maestro racconta:

“Vedova parlava di condizione dello specchio, del rapporto con lo specchio, della solitudine, e vedeva nei miei lavori i fantasmi. Queste aperture del pensiero mi davano uno spunto di riflessione.”

Sulla sua esperienza lagunare, continua dicendo:

“Ho conosciuto anche Armando Pizzinato che mi ha colpito soprattutto per la relazione dualistica con Vedova. Mi hanno toccato questi due poli forti con cognizione decisa di ciò che stavano affrontando, avevano entrambi una grande dignità dell’essere artista.”

Grosso ritorna a Venezia quest’anno nella mostra Tabula Rasa – Metamorfosi per una rinascita al Museo del paesaggio a Torre di Mosto, a cura di Stefano Cecchetto.

In quest’esposizione sono presenti maestri internazionali del ‘900 e artisti contemporanei: si assiste allo svolgimento del concetto di “azzeramento come trasformazione e metamorfosi per una rinascita”, secondo le parole dello stesso artista.

La personale B-Sogno³, presso la Galleria Totem di Venezia, ha segnato il percorso di Grosso, che dichiara:

“avevo concepito questa formula tra il sogno e l’effettivo bisogno dell’artista elevato al cubo come amplificazione del concetto. Il sogno – si può citare l’esperienza surrealista – è una componente dell’arte come condizione generale. L’arte attraverso il sogno si eleva mentre il bisogno è la condizione del fare dell’artista.”

Il cursore diretto sulle immagini visualizzerà le didascalie; cliccare sulle stesse per ingrandire.

Info mostra

  • TABULA RASA-Metamorfosi per una Rinascita
  • 14 settembre – 30 novembre 2013
  • Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di San Dona di Piave (VE)
  • Museo del Paesaggio in località Boccafossa a Torre di Mosto (VE)
+ ARTICOLI

Claudia Quintieri, classe ’75, è nata a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Lettere indirizzo Storia dell’arte. È giornalista, scrittrice e videoartista. Collabora ed ha collaborato con riviste e giornali in qualità di giornalista specializzata in arte contemporanea. Nel 2012 è stato pubblicato il suo libro "La voglia di urlare". Ha partecipato a numerose mostre con i suoi video, in varie città. Ha collaborato con l’Associazione culturale Futuro di Ludovico Pratesi. Ha partecipato allo spettacolo teatrale Crimini del cuore.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.