57. Biennale di Venezia. La presenza latino americana. Con una conversazione con Antonio Arevalo

VIVA ARTE VIVA è il titolo della 57. Esposizione Internazionale d’Arte organizzata dalla Biennale di Venezia; la curatrice Christine Macel indica un percorso dove conta la libertà d’espressione che l’artista deve avere nei confronti di una società oggi basata sull’individualismo. Apre la via ad una riflessione sulla spiritualità e ad un sano relazionarsi fra le persone, come lei stessa dichiara:

Viva Arte Viva è così un’esclamazione, un’espressione della passione per l’arte e per la figura dell’artista. Viva Arte Viva è una Biennale con gli artisti, degli artisti e per gli artisti, sulle forme che essi propongono, gli interrogativi che pongono, le pratiche che sviluppano, i modi di vivere che scelgono”.

Molto interessante è l’espressività degli artisti dell’America Latina, approfondita e vista fra Arsenale e Giardini. Ed è il Brasile che si è aggiudicata la Menzione Speciale come Partecipazione Nazionale con Chão de caca di Chintia Marcelle. La motivazione è stata questa:

“per un’installazione che crea uno spazio enigmatico e instabile in cui non ci si può sentire sicuri. Sia la struttura dell’installazione che il video di Cinthia Marcelle, realizzato in collaborazione con il cineasta Tiago Mata Machado, affrontano le problematiche della società brasiliana contemporanea.”

Entrando colpisce il pavimento leggermente inclinato, una scultura fatta di grate saldate e pietre che stravolgono l’architettura dello spazio evocando simultaneamente un laboratorio, un sanatorio e una foresta. si prova uno spaesamento che crea quasi una vertigine.

Interessante il Padiglione del Cile, ne abbiamo parlato con l’Addetto Culturale all’Ambasciata del Cile in Italia, Antonio Arevalo, che ci ha spiegato come è avvenuta la nomina di Ticio Escobar come curatore:

“Il Cile ha indetto un concorso internazionale, con una giuria internazionale, in cui potevano partecipare curatori latinoamericani. Sono arrivati venti progetti e la giuria ha scelto Escobar, uno dei curatori più importanti dell’America Latina, che è stato Ministro della cultura in Paraguay. Escobar, molto attivo politicamente, si occupa di problemi indigeni da molti anni ed ha già lavorato con Bernardo Oyarzún, l’artista che ha scelto per rappresentare il Cile in questa Biennale.”

L’opera Werken di Bernardo Oyarzún è costituita da 1000 maschere Mapuche, popolo amerindo originario del Cile e del sud dell’Argentina, maschere che invadono lo spazio, mentre alle pareti scorrono, in neon rossi, 6907 cognomi Mapuche. Si vuole riflettere sulla perdita dell’identità di questa popolazione indigena, i cui cognomi stanno scomparendo. Le maschere sono tradizionalmente utilizzate in cerimonie e Bernardo Oyarzún ne approfondisce il senso:

“la maschera è un gioco di rappresentazione e ogni gesto è significativo. Come le maschere del teatro greco: alcune hanno espressioni forti e altre più dolci. Sono teatrali, questo progetto creerà un dialogo che dipenderà da ogni spettatore. gli spettatori sentiranno il peso dell’immaginario fantasmagorico”.

Questo lavoro è molto personale perché, commenta Arevalo:

“Bernardo Oyarzún è di origine Mapuche.”

Ebbene: possiamo dire che in America Latina tutti gli stati sono in conflitto con le comunità indigene, controllate da poliziotti, e che subiscono vessazioni. Agli indigeni vengono tolte le terre, sono poi sopraggiunte società occidentali che hanno cambiato il sistema ecologico in cui vivono, modificando il corso dei fiumi, attuando la deforestazione. La cosa interessante di questa installazione è che l’arte si prende cura di queste problematiche e le porta in Biennale. Nella mostra principale, Viva Arte Viva, sono esposti due video dei cileni Juan Downey e Enrique Ramírez.

Il primo presenta The Circle of Fire, frutto di un viaggio nella Riserva Federale di Amazzonia in cui vive con il popolo Yanomami. L’installazione è a due canali, ma i monitor sono otto in cui vengono ripetuti quattro volte i video; questo per replicare la forma circolare dello shabono, il luogo dove si riuniscono le persone della comunità. L’interessante è che non è solo l’artista a filmare, ma fa usare la telecamera anche agli indigeni, creando un incrocio di punti di vista.

Il secondo presenta Un hombre que camina che parla del passaggio da un mondo ad un altro, dai vivi ai defunti. È la marcia di un uomo verso la morte girata nel deserto del sale di Uyuni, in Bolivia, durante la stagione delle piogge. L’uomo utilizza una maschera da diablo nortino che gli autoctoni usavano per deridere i conquistadores durante le danze popolari, e trasporta abiti neri di defunti. Tutto finisce con una fanfara, elemento tipico dei funerali delle alte Ande cilene e boliviane.

Arevalo commenta il lavoro di questi due artisti:

“Juan Downey, oramai scomparso, nel suo video in Biennale, riesce a recuperare una realtà quasi scomparsa, quella degli Yanomami, che vivono fra Venezuela e Brasile. È stato un personaggio importante, che ha portato l’arte cilena verso la contemporaneità: ha vissuto a New York ed ha collaborato con l’avanguardia newyorkese. Nella Biennale di Venezia del 2001, da curatore-commissario, ho presentato il suo lavoro che ha vinto la Menzione d’onore. Mentre Enrique Ramírez ha contestualizzato la sua opera pensando alle tradizioni, affascinante il paesaggio boliviano che ha scelto per esprimere un concetto importante e che riguarda l’intera umanità. È uno dei giovani artisti del Cile che sicuramente seguirò negli anni a venire. Entrambi Downey e Ramírez sono cileni, ma indagano territori e tradizioni che non sono cilene e che appartengono al patrimonio latinoamericano.”

Sstrutturato in maniera organica è il Padiglione del Messico dove Carlos Amorales presenta l’installazione Life in the Folds. Il fulcro del lavoro è la creazione di un linguaggio composto da un alfabeto illeggibile scaturito da disegni astratti. Le lettere prendono corpo in una varietà di caratteri figurativi esposti su tavoli. Il linguaggio, sviluppato in una serie di ocarine, strumenti a fiato in ceramica che emettono un suono specifico per ogni lettera, viene utilizzato per parlare della storia di un linciaggio, subito nell’inadeguatezza dello Stato e della società, in un film esposto nel padiglione. A fianco, il Padiglione dell’Argentina, dove troneggia una statua di un enorme cavallo e di fronte una statua di una ragazza che con una mano gli accarezza il muso e con l’altra si copre gli occhi. Il titolo dell’opera è Il problema del cavallo di Claudia Fontes. Su cosa riflette l’artista? A partire da quando l’uomo ha iniziato a forgiare il ferro, a imbrigliare i cavalli, a raccogliere piante, ha creato una supremazia sul mondo naturale scordandosi di essere un animale, e siamo intrappolati in un sistema che dovremmo abbattere perché è mortale” Fare arte è la via per gridare al mondo il pericolo che corriamo e per sopravvivere.

Sul sociale militante  si incentra, invece, il Padiglione del Perù con Land of Tomorrow di Juan Javier Salazar, oramai scomparso. Salazar è stato un eroe culturale della scena creativa di Lima. Il Padiglione è risolto dal punto di vista concettuale piuttosto che da un punto di vista visivo. Basandosi sulle tradizioni nel rapporto con il colonialismo, l’artista ha sviluppato un confronto fra la storia del Perù (la terra di domani) e la storia del mondo( la terra del presente). Il riferimento è alla produzione dei manufatti del ceto operaio con una narrazione personale.

Nel Padiglione dell’Uruguay ci accoglie una grande installazione La legge dell’imbuto di Mario Sagradini. è percorribile dall’uomo che fa l’esperienza di camminare sul recinto o “imbuto” utilizzato in Uruguay fin dal XIX secolo per la classificazione del bestiame. L’artista crea quindi uno spaesamento dell’uomo che è anch’esso un animale che potrebbe ritrovarsi ingabbiato e forse lo è nel nostro contesto sociale e politico, tanto che l’installazione è assimilabile ad una macchina carceraria.

All’Arsenale è suggestiva l’installazione del brasiliano Ernesto Neto (1964, Rio de Janeiro) che propone un’imponente struttura di poliammide  in cui si può entrare creando un’esperienza totalizzante che attiva tutti i sensi. La forma è quella della Cupixawa, un luogo di socializzazione, incontri politici e cerimonie spirituali degli indios Hni Kuin nello stato di Acre nella foresta amazzonica. Qui si scacciano le energie negative e ci si connette con la natura attraverso l’ayahuesca una pianta psichedelica considerata una “pianta maestra” dagli Huni Kuin. Nei giorni dell’inaugurazione ci sono state due performance in cui si invitava il pubblico a immaginare una trasformazione sociale.

Si può poi osservare l’opera Third Lung di  Naufus Ramìrez-Figueroa, Guatemala, che qui mette in scena sedute spiritiche mirate ad entrare in contatto con specie di uccelli estinti. Si ispira alla cultura Maya per realizzare fischietti d’argilla di sembianze animali che riproducono suoni che sono essenziali  per entrare nell’esperienza mistica.

Il messicano  Gabriel Orozco (1962, Xalapa) presenta una versione di Visible Labor che trae origine da ricerche del 2015 quando si è trasferito a Tokyo. Travi di legno assemblate secondo una tradizione giapponese vogliono far riflettere su una società industriale oramai in declino in rapporto con il passato, infatti vi sono inserite figurine del Buddha e Ferrari in miniatura, e una tavola da gioco del Go.

Altro lavoro di rilievo è della messicana Cynthia Gutièrrez, Càntico del descenso. L’artista crea vari basamenti scolpiti provenienti da cave messicane le cui pietre venivano spesso utilizzate per la costruzione dei monumenti ufficiali durante la dominazione spagnola. Su questi, sono inserite, invece che i personaggi ufficiali imposti dai colonizzatori, tessuti di lana che non sono celebrativi, ma si dispongono afflosciati. I tessuti provengono dalla provincia messicana di Oaxaca, qui le donne tessono alla maniera pre-ispanica cioè attaccando l’estremità dei fili da tessere da un lato al tronco di un albero e dall’altro alla cintura della tessitrice. è una denuncia contro il colonialismo e d’altra parte si legge la speranza di un possibile meticciato.

L’argentino Martin Cordiano espone Common Places: sei bassi parallelepipedi di legno evocano le diverse stanze di una casa, e sono riempiti da palle di gesso colorate ispirate a palle di cannone scoperte sotto un arco a Budapest. L’artista vuole realizzare un gioco percettivo fra spazio, forma, volume e colore, che influenzano anche le nostre relazioni interpersonali e il nostro rapporto con il potere. I vari spazi sembrano toccarsi, ma non si toccano mai, richiamando la storia personale dell’artista, esule argentino, e le questioni della separazione e dell’identità.

Le problematiche della colonizzazione portoghese e della tratta degli schiavi in Brasile sono affrontati da Ayrson Heràclito in O Sacudimento da Casa da Torre e O Sacudimento da Maison Des Esclaves em Gorée. L’artista filma due performance realizzate sulle due sponde dell’oceano Atlantico. A Salvador de Bahia nella casa di una famiglia di grandi proprietari terrieri che, fra XVI e XVIII secolo, hanno ridotto in schiavitù le popolazioni indigene che vi abitavano. E un luogo di transito, celebre casa di reclusione di africani in attesa di essere portati dall’isola di Gorée, in Senegal, verso le colonie portoghesi in Brasile. In questi luoghi tre uomini eseguono il rito dello “scuotimento” che serve a disperdere gli spiriti degli antenati morti che possono portare guai.

Liliana Porter, Argentina, presenta El Hombre con el hacha y otras situaciones breves, installazione in cui inserisce oggetti banali e insignificanti che rompono i dogmi della frontiera fra realtà e rappresentazione. Diffonde figure che si relazionano in azioni surreali che indagano la materia del ricordo. L’artista accompagna dubbi e interrogativi che ognuno si pone.

I video dell’argentino Sebastìàn Dìaz Morales sono al limite fra il documentario e la poesia. Pasajes IV riprende un individuo che si inoltra in diverse città in Patagonia. I luoghi attraversati sono segnati dalla crisi economica, come una fabbrica abbandonata, in contrapposizione con la carica libertaria del protagonista e gli immensi paesaggi.

Ai Giardini nella mostra del Padiglione centrale, di nuovo un video: dell’argentino Sebastìàn Dìaz Morales, Suspension, che indaga il rapporto fra realtà e fiction. Il confine fra uomo e natura viene reso attraverso una nuvola di vapore bianca in cui si intravede un uomo sospeso a mezz’aria che sembra cadere lentamente, gli occhi sono chiusi. È il lento scendere dell’uomo in una passività che denuncia la nostra situazione contemporanea.

Di fronte al Padiglione centrale l’opera del brasiliano Paulo Bruscky ARTE SE EMBALA COMO SE QUER frutto di una performance. L’artista, insieme ai suoi assistenti che indossavano una divisa da trasportatore di opere, sono arrivati con una gondola veneziana insieme alle prime due casse che andranno a comporre il lavoro. La gondola era seguita da una barca che trasportava altri assistenti e le rimanenti 24 casse. Le casse sono tutte timbrate con la scritta “ART IS PACKAGED ANY WAY YOU LIKE IT”, in portoghese, inglese e italiano, ad eccezione della prima su cui è stampigliata la scritta “BIENNALE 2017, ARTIS PACKAGED ANY WAY YUO LIKE IT” e “BRUSKY PERFORMANCE”. La processione è poi giunta al Padiglione centrale, l’artista ha posizionato la prima cassa e di seguito gli assistenti le altre, in modo aleatorio. Lì si trovavano un piumino per la polvere, una scopa, un mocio, una graffiatrice ed un nastro adesivo, come in un ready-made. La riflessione dell’artista si basa sul ruolo dell’arte contemporanea che dovrebbe riavvicinarsi alla vita pubblica.

La maggior parte dei lavori di culi abbiamo parlato praticano un linguaggio dell’arte come, essenzialmente, denuncia sociale e politica, indagano il rapporto con le tradizioni, lasciando spazio alla vita nella sua complessità. Tante espressioni creative per tante individualità, che si confrontano in maniera aperta e molto diretta con chi guarda, lasciando ad ognuno dubbi, interrogativi, perplessità, facendolo progredire nell’accrescimento del proprio percorso emozionale, dandogli la possibilità di strutturare nuovi pensieri.

+ ARTICOLI

Claudia Quintieri, classe ’75, è nata a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Lettere indirizzo Storia dell’arte. È giornalista, scrittrice e videoartista. Collabora ed ha collaborato con riviste e giornali in qualità di giornalista specializzata in arte contemporanea. Nel 2012 è stato pubblicato il suo libro "La voglia di urlare". Ha partecipato a numerose mostre con i suoi video, in varie città. Ha collaborato con l’Associazione culturale Futuro di Ludovico Pratesi. Ha partecipato allo spettacolo teatrale Crimini del cuore.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.