Meccanimus di Francesca Fini. Anima e macchina si uniscono cercando un dialogo

Meccanimus di Francesca Fini, foto di Roberto De Amicis

Meccanimus è la performance di Francesca Fini presentata al Maam -Museo dell’Altro e dell’Altrove della Città di Metropoliz, unità abitativa autogestita in un’ex fabbrica di Via Prenestina a Roma dove ha trovato casa l’arte.

Fra gli eventi che si sono svolti in occasione delle iniziative del Rebirth-day promosso dalla Fondazione Pistoletto, dove azioni, recitazione, musica, canto, ombre cinesi e proiezioni video si sono miscelati in uno spettacolo intenso e comunicativo, si è espressa la performer Francesca Fini, con la danzatrice Anna Bastoni ed il musicista Pierpaolo Caputo che hanno dato vita ad uno scambio di talenti, insieme in un unico dispositivo scenico diretto al suggerimento di una profonda riflessione sull’essere umano.

Perché il titolo Meccanimus? È l’unione delle parole e dei concetti macchina e animus.

La macchina una volta impostata agisce ripetitivamente ed è prevedibile mentre lo spirito umano è imprevedibile nel suo pensiero, nelle sue manifestazioni e nella libertà, libertà che è il viatico per la creazione. Due polarità che accompagnano tutta la performance,a cominciare dall’inizio in cui la ballerina e la performer hanno in mano due maschere di ghiaccio, una blu ed una rossa: i due colori rappresentano maschile e femminile, macchina e spirito, polarità elettriche. Il ghiaccio delle maschere richiama la storia iniziale raccontata dalla voce di Fini in cui una donna deve salire su di una parete di ghiaccio per giungere alla realizzazione personale. La parola, in questo caso veicolata dalla voce, è una costante in tutto lo spettacolo e questa storia al femminile da il là per la comprensione di tutta la performance: la parola è momento centrale e continuo. È tramite la parola che l’umanità evolve  e così entrano di nuovo in gioco due polarità, questa volta il bene e il male: l’evoluzione può portare a grandi opere d’arte come alla bomba atomica. Ma la parola è anche cantata: grazie al laringofono il canto della Fini viene decodificato in immagini proiettate, altre immagini proiettate sono legate ai tasti di una vecchia macchina da scrivere che emette poi suoni, entrambi orchestrati da Caputo.

Le immagini video sono tante: una laringe vista dall’interno, simbolo dell’importanza della lingua, lascia il posto a filmati di esperimenti su bambini che si facevano negli anni ’30 per capire apprendimento e comportamenti umani, nello specifico si tratta di due fratelli. Questi filmati sono accompagnati dalla riflessione sulla maternità, una maternità che non è umana, bensì il voler sottolineare il rapporto di filiazione fra Dio e uomo che nasconde sempre una sorta di ambivalenza ed incomprensione, una sorta di ambivalenza scatenata da ciò che è il destino voluto da Dio per noi. Nella fase precedente della performance, quando si parla della donna che deve salire una montagna di ghiaccio, si parla anche del maschio contemporaneo e della sua difficoltà a misurarsi con la donna contemporanea. Tutto ciò è frutto dell’evoluzione della società e sul finale si arguisce quale potrebbe essere l’inizio di queste problematiche, si affronta l’episodio, realmente verificatosi nel 1951 a Roma, in via Savoia, quando duecento dattilografe si sono ammassate su di una scala di un edificio dove si doveva svolgere un colloquio di lavoro finito in tragedia: la scala crollò, non riuscendo a sostenere il peso di tante aspiranti arrivare alla chiamata per quel posto, molte delle quali perirono o furono ferite. Qui si nota la formulazione più evidente della meccanizzazione dell’essere umano, l’unione, a rischio o meno, con la macchina da scrivere. E come nel dopoguerra c’era povertà (che, per esempio, spinse così tante donne a presentarsi a quel lontano appuntamento), oggi si è tornati ad una difficoltà sociale molto forte. Inoltre, il fatto che Fini abbia scelto questo episodio è indicativo della volontà di riflettere sulla parola: quella detta, cantata, e quella scritta; a ciò si aggiunge la sua fascinazione per le vecchie macchine da scrivere e l’inchiostro. Si può dire che sulla scena ci fosse un terzo attore, cioè la scenografia: a fare da sfondo e trasformata in quinta teatrale con immagini proiettate.

L’ispirazione iniziale per la costruzione di Meccanimus   – curata al Maam da Lori Adragna – è stato il libro Dell’uguaglianza di Bertold Brecht, di cui è, però, rimasto solo qualche citazione perché, come dice l’artista:

“volevo allontanarmi dal manifesto politico, seppur ironico, per avere uno sguardo più benevolo nei confronti dell’umanità con i suoi difetti.”

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Claudia Quintieri, classe ’75, è nata a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Lettere indirizzo Storia dell’arte. È giornalista, scrittrice e videoartista. Collabora ed ha collaborato con riviste e giornali in qualità di giornalista specializzata in arte contemporanea. Nel 2012 è stato pubblicato il suo libro "La voglia di urlare". Ha partecipato a numerose mostre con i suoi video, in varie città. Ha collaborato con l’Associazione culturale Futuro di Ludovico Pratesi. Ha partecipato allo spettacolo teatrale Crimini del cuore.

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