Marcello Mantegazza: La sola porta d’uscita è quella di entrata. L’intervista

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Marcello Mantegazza (Potenza 1974) è un artista visivo che utilizza vari linguaggi per la sua arte, dalla fotografia alla scultura passando anche per la scrittura.

In effetti, il suo lavoro è come se fosse un enorme libro contenente tutti i suoi ragionamenti e pensieri, fluidi, originali e anche visionari.

I mezzi da lui usati è come se fossero dei transfer di racconto. a volte personale e altre universale: un’immagine, un timbro, uno scalpello per incidere il marmo o carta e matita.

Indaga da sempre lo scorrere del tempo che raccoglie e custodisce, producendo quotidianamente e con metodo rigoroso quanto empirico.

Poi ci sono i concetti esistenziali, come la vita e la morte, che con grande ironia e pragmatismo sa sintetizzare (Spoiler: you will die).

In una ricerca continua, incasella, inquadra e archivia tutto come se questa ritualità infondesse in lui una sicurezza di un giusto modo di gestire la globalità del suo lavoro e forse anche della sua vita.

E funziona, perché l’arte di Marcello Mantegazza è costruita con un sistema di idee e simboli in perfetta sincronia.

Numerose le sue mostre – da molti anni è seguito dalla 3)5 ArteContemporanea di Rieti e Sipicciano – e l’ultima, Una specie di verità, è una personale pensata come un percorso tra opere inedite, storiche e site specific, curata da Donato Faruolo, per Porta Cœli Foundation a Venosa (Potenza); inaugurata il 27 febbraio scorso e, per via delle varie chiusure legate alle restrizioni anti Covid, prorogata fino al 31 agosto 2021.

Chiediamo all’artista, i contenuti di questa sua mostra e andiamo a conoscere meglio il suo percorso artistico più generale.

Una specie di Verità è una tua visione o una riflessione sull’artificialità della nozione di verità. Prima di tutto: che tipo di percorso hai voluto costruire per questa  mostra?

Una specie di verità è sia il titolo della mostra presso Porta Coeli Foundation che il titolo del testo di Donato Faruolo, curatore di 404, il programma per l’arte contemporanea della Fondazione, di cui la mia mostra rappresenta il secondo appuntamento.

La verità di per sé indica il senso di accordo o di coerenza con un dato o una realtà oggettiva, o la proprietà di ciò che esiste in senso assoluto e non può essere falso. È evidente quindi che non può esisterne una specie, in quanto essa stessa esiste in senso incondizionato.

L’attestazione “una specie di verità” può essere intesa come un paradosso. Tra i possibili titoli valutati insieme con Faruolo, col quale si è instaurato già dalle prime visite a studio, un dialogo profondo e profonda sintonia di vedute, è parso subito il più appropriato, per una mostra che è una sorta di indagine investigativa privata e personale sul concetto di monumentalità. La gestazione della mostra comincia proprio da qui, nella percezione della tautologia e del paradosso che è alla base della concezione del monumentale nel contemporaneo.

Il percorso si snoda tra opere inedite, storiche e site specific, quadrerie, volumi, frottage, epigrafi incise su marmi, sempre con quell’attenzione di natura antropologica, che ha contraddistinto il mio lavoro degli ultimi anni, verso le catalogazioni e gli inventari, gli elenchi e le enumerazioni, la formulazione di indici e le classificazioni, il tutto applicato al tema della morte, dello scorrere del tempo e della memoria, della permanenza e trasformazione, della durata e della caduta.

Uno dei lavori site specific prodotti per la mostra presso Porta Coeli Foundation a Venosa riguarda sia quell’investigazione privata sul concetto di monumentalità a cui accennavo prima e sia il carattere della città di Orazio, dove per carattere si intende segno tracciato, impresso o inciso, cui si attribuisca un significato.

Dopo i primi sopralluoghi investigativi mi aveva colpito la pratica molto diffusa nella città oraziana di sezionamento e successiva ricollocazione delle rovine archeologiche di epoca romana in nuove costruzioni, spesso case collocate lungo il decumano e le vie che attraversano il centro storico venosino.

“Il frammento”, come scrive Faruolo nel testo curatoriale che accompagna la mostra e la completa, “perde la possibilità di articolare un proprio comunicato, viene utilizzato come citazione e referenza di un prestigio storico, ma spossessato di qualsiasi possibilità declamatoria, tra monumentale e antimonumentale”. 

Nell’ottica di quel segno tracciato, di quel carattere della città, ho realizzato una serie di frottage andando alla ricerca di queste pietre mimetizzate tra le case, che avevano perso la loro monumentalità originaria. Ricomposte poi a studio sono state ricollocate in una quadreria difficilmente identificabile, disposta lungo alcune pareti della galleria.

È un lavoro che ha avuto una gestazione lunga, dai primi sopralluoghi in città, ai momenti di realizzazione sul posto dei frottage con carte e grafite specifica di formato XL per lavorare su superfici ampie, fino alla rielaborazione a studio, la scelta dei reperti più idonee e la ricollocazione in galleria sotto forma di quadreria.

Un tentativo effimero di ridare monumentalità ad immagini emancipate dai propri referenti. Nello stesso tempo è risultato interessante lavorare sulla memoria del luogo, cercando di impossessarmi di un dato, rilevandolo, tracciando segni tramite sfregamento, creando suggestioni.

Mi interessa più lavorare sull’atmosfera, su cosa quei fogli di carta possano diventare, anche distaccandosi da una narrazione originaria, che avere una riproduzione fedele di un segno inciso.

Vedendo i risultati credo di esserci riuscito.

Questo lavoro che volutamente si intitola senza titolo, 2020 proprio per sottintendere questo suo divenire altro rispetto alle intenzioni iniziali, è solo parte del percorso della mostra, ma ci tenevo a parlartene per il suo chiaro riferimento alla città di Venosa, che mi ospita in questi mesi. Anche se altre opere inedite esposte hanno chiari riferimenti alla città e a Orazio.

Tutto questo è avvenuto tra novembre e gennaio, a cavallo di zone rosse e arancioni dovute all’emergenza sanitaria, in un periodo in cui molte attività legate in qualche modo all’arte contemporanea erano in attesa, congelate, sedate per un tempo indefinito.

Il modo in cui decidi di approcciarti agli eventi è fondamentale.

Molti sono i mezzi da te usati nella tua arte, ma il marmo è un materiale da te prediletto negli ultimi anni. Penso a lavori come Spoiler: you will die® (2016), o Sono stato forse sarò stato (2016), e anche a Suicide Girls (2016) e Sulla scenografia del caos e la ricerca della forma (2018). Come è nato questo tuo rapporto con questo materiale tanto caro ai maestri rinascimentali?

L’idea di monumentalità rivista in chiave contemporanea, indagandone gli aspetti legati al messaggio, alla percezione della tautologia e del paradosso che è alla base della concezione del monumentale nel contemporaneo: la scelta di utilizzare spesso il marmo sotto forma di epigrafi viene da lì.

Mi sono formato all’Accademia di Belle Arti di Roma, ma frequentando i corsi di pittura.

Non sono uno scultore, ho un approccio concettuale alla materia, posso avvalermi di un pantografo per incidere la pietra oppure quando ho necessità di una scrittura e di un segno più incerto e meno definito, decido di intervenire manualmente.

Presto sempre molta attenzione alla composizione dell’opera, alla sua resa, la scelta del font da utilizzare per lo scavo, le strutture che costruisco per sorreggere il marmo, la quasi totale assenza del colore, che a volte può risultare essere solo un elemento di distrazione dal messaggio, che spesso risulta talmente ovvio da essere disturbante.

In questo senso tutto ciò che di tautologico persiste nel monumentale riecheggia in molti miei lavori, anche tra quelli che hai citato.

Cerco sempre di confezionare al meglio ogni nuova opera, di darle un senso di dignità, è un’esigenza che sento molto forte già dall’inizio di un mio nuovo lavoro.

Ho un rapporto contraddittorio e irrisolvibile con l’arte, non la amo, ma la rispetto e cerco di ridarle elevatezza. Molto spesso questo appressamento traspare agli occhi di chi ne fruisce. O perlomeno negli anni mi è stato riferito il fatto che dalle opere trasparisse la pulizia, il rigore e la serietà del lavoro. Quando accade mi fa piacere, ma nello stesso tempo la cosa non mi sorprende, ne sono consapevole.

Probabilmente deriva dal fatto di essere molto critico nei riguardi di tutto il mio fare. L’essere così critico non è una questione di insicurezza ma di essere molto esigente relativamente al risultato finale. Ripeto: è un tentativo di restituire dignità a un’attitudine, quella dell’arte, spesso controversa, semplificata, abusata. O forse riguarda solo la mia visione del mondo, e forse risulta essere autoreferenziale.

D’altronde siamo tutti autoreferenziali: nell’atto creativo ci esprimiamo prima di tutto per noi stessi, esprimere, per godere, provare piacere o scoprirsi frustrati di non riuscire ad avere un’idea o averla e non riuscire a tradurla in qualcosa.

Ma è soltanto in quell’autoreferenzialità che l’arte diventa poi di tutti e tutti possiamo goderne.

Poi ci sono i taccuini, quaderni sui quali quotidianamente. prendi appunti disegnati: una sorta di tracce di vita, di storia, pensieri sparsi o racconti intimi; cosa sono , più esattamente, per te, i tacquini?

I taccuini sono una vecchia abitudine.

Ogni artista ne fa un uso personale, ogni artista probabilmente ti darà una risposta simile alla mia e nello stesso tempo diversa di cosa possa essere un quaderno di appunti, di bozze di progetti, di cosa possa significare compilarlo.

Per me più che racchiudere un’idea, la bozza o il progetto per un futuro lavoro, la sua anatomia, il quaderno diventa diario della quotidianità, di cui abbiamo ormai orrore.

Per quello mi capita di registrarla, confinandola tra le pagine di quaderni che restano spesso un esercizio quotidiano molto intimo e personale, che non è destinato ad essere esposto, o perlomeno non nasce per questa esigenza.

È un’attitudine connessa all’esigenza di catalogare, archiviare, raccogliere, conservare ritagli, liste della spesa, ricopiare, annotare, di-segnare, repertare, come farebbe un accumulatore seriale di ricordi, un collezionista onnivoro.

Esigenza questa a cui Derrida assegnò anche un nome: mal d’archivio.

Nelle pagine dei taccuini affiorano immagini, odori, ricordi, sensazioni.

Comincio a scrivere e disegnare per bloccarle, non perderle, aspetto per vedere cosa accade, in maniera consequenziale o effettuando salti con l’aiuto di frecce curve, collegamenti attraverso le sinapsi.

Funziona come per i sogni al risveglio.

Il mondo sensoriale facendo pressione attira immediatamente l’attenzione su di sé, e poche immagini del sogno riescono a resistergli. Freud faceva l’esempio dello splendore delle stelle che svanisce davanti alla luce del sole. Non voglio ragionare sul perché li dimentichiamo i sogni, se non ricordando che quasi tutti gli esseri umani dimostrano per essi scarso interesse. Voglio capire invece perché affiorano, sogni, ricordi, allucinazioni compensative, realtà altre, visioni.

Mi accorgo che mi sto dilungando in pensieri andando al di là dal dare una semplice risposta, ma trovo sia utile non perderli, alcuni pensieri, anche se dovessero risultare noiosi per chi legge.

Mi capita spesso soprattutto quando mi si chiede di parlare dei taccuini.

Negli anni ne ho accumulati tanti, di formati diversi. Hanno registrato periodi differenti della mia vita, tutto sommato è comprensibile perdersi in flussi di pensiero quando se ne parla. I taccuini sono flussi di pensiero che prende forma. Forse per questo non dovrebbero neanche esistere, sono ossimori, in quanto traducono qualcosa che di per sé dovrebbe fluire senza lasciare traccia, come un pensiero.

Sei nato e cresciuto a Potenza, poi ti trasferisci a Roma per diplomarti nel 2003 all’Accademia delle Belle Arti, in seguito vivi per alcuni anni a Rieti, ora sei ritornato nella tua città natia in Basilicata. Quanto sono importanti per te i luoghi e i sentimenti di appartenenza ad essi e in che modo influiscono sul tuo lavoro artistico.

Gli anni romani sono stati importanti perché anni di formazione, anche dopo essermi diplomato in Accademia ho continuato a vivere per alcuni anni a Roma, ho vissuto anche se per poco l’esperienza di avere uno studio condiviso con amici artisti, esperienza che trovo essere importante soprattutto se vissuta a ridosso degli anni di studio.

Poi dal 2009 al 2017 ho vissuto a Rieti. Sono stati anni importanti anche quelli, i rapporti con la galleria 3)5 Arte Contemporanea che allora aveva sede proprio a Rieti mi hanno aiutato a crescere e acquisire una certa sicurezza e consapevolezza, che spesso ti aiuta a difenderti dagli attacchi di un ambiente, il mondo dell’arte, non sempre sano e autentico.

In Basilicata mi ci sono ritrovato quasi per caso, senza tirare in ballo il destino posso dirti che le cose accadono. Ma il sentimento di appartenenza ad un luogo non c’entra.

Sono legato più alle persone che ai luoghi, coltivo la mia solitudine ma nello stesso tempo cerco di intessere relazioni sane in qualsiasi posto mi trovi.

Non credo che i luoghi influiscano sul mio lavoro artistico, magari possono influire in maniera indiretta, perché filtrati attraverso la letteratura, il cinema. Ovvio che se mi trovo a pensare ad un lavoro site specific per un luogo, come nel caso della mostra di Venosa, allora cerco di documentarmi ma anche di conoscere fisicamente quel posto, di conoscerne la storia ma anche la geografia. In casi come questo il luogo è solo oggetto di studio, un posto vale un altro.

Ti definisci come un convinto sostenitore dell’incomunicabilità dell’arte, e sono d’accordo con te nel dire che non va sempre spiegata, ma qual è veramente, nel profondo, l’essenza del tuo lavoro?

Odio le didascalie sotto le opere, ne corrompono l’approccio diretto. Certo, ci sono artisti che giocano proprio sul rapporto tra opera e didascalia, talvolta con ironia, ma lì già stiamo parlando d’altro…

Mi chiedevi dell’incomunicabilità dell’arte, sì… Mi sembra anche inutile citare Carmelo Bene… l’arte non è comunicazione, l’arte è visione.

L’arte contemporanea più che produrre immagini dovrebbe restituirne. Sotto forma di visioni illuminate. Solo così forse potremo accorgerci che quella che pensavamo fosse una realtà immutabile, è modificabile semplicemente con un approccio diverso a essa. La realtà è la stessa, non cambia, è il nostro occhio ormai ad essere irrimediabilmente diverso.

Mi chiedevi cos’è l’essenza del mio lavoro…: essere autentici e avere una storia da raccontare. Essere autentici. Se ci pensi oggi esserlo è già tanto.

Mi viene in mente per chiudere una citazione di George MacDonald che sembra quasi un koan zen sul quale meditare per anni: “La sola porta d’uscita è quella di entrata”. Tautologia e paradosso.

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Serena Achilli, studiosa appassionata d'arte contemporanea, è curatrice indipendente e direttore artistico di Algoritmo Festival. Scrive per raccontare la propria contemporaneità cercando con cura pensieri e parole. Ha un Blog in cui c'è tutto questo e altro ancora.

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