Cronaca sulle Arti in Italia nel 2014. Cosa chiedere per il 2015

BIENNALE VENEZIA 2014 Padiglione di Venezia. Ph. LTraversi

La Biennale Architettura 2014 (aperta a Venezia fino al 22 novembre, www.labiennale.org) è cominciata in giugno, in anticipo rispetto al passato, attenta al calendario di Expo 2015, in concomitanza colla quale aprirà All the World’s Futures, la Biennale Arte 2015 (dal 9 maggio) diretta da Okwui Enwezor, già curatore di Documenta 11.

La Biennale Architettura, curata dall’anti-star Rem Koolhaas, parte da Elements of Architecture (Giardini-Padiglione Centrale), con un catalogo visitabile delle parti fondamentali del costruito: pavimenti, soffitti, tetti, porte, finestre, facciate, pareti, balconi, corridoi, caminetti, toilettes, scale, ascensori, rampe, ecc.
Molte le curiosità, tra tetti asiatici, sezioni parietali, riscaldamento localizzato sulla persona, ma le sezioni più ricche di spunti – in questa Biennale che ha voluto fare ricerca – sono forse quelle dedicate a finestre, scale, bagni e corridoi grazie, rispettivamente, ad alcuni collezionisti accaniti: Charles Brooking (250.000 finestre et al.), Friedrich Mielke (fondatore della Scienza delle scale), il Toilet Museum austriaco di Gmunden e la Sobinco, azienda di eccellenza che – tra guarnizioni ed infissi, oggi in alluminio – esporta in 60 nazioni il 90% dei suoi prodotti EU, dalla fabbrica belga di Zuite.
Il proposito del curatore era (dis)umano e quindi non sempre l’ inventario appare soddisfacente: la selezione di pavimenti, soffitti, facciate e porte è inadeguata -anche limitandosi al Novecento- rispetto all’enorme varietà storica del costruire umano. Con o senza le 15 pubblicazioni in inglese (119 Euro), il rischio delusione è dunque in agguato? Fino alla nostalgia per i solidi Manuali dell’ Architetto? Forse no. Dosando bene una ferrea volontà e una buona colazione al seguito (la ristorazione in loco non è in linea con il prestigio della Biennale e di Venezia), due giornate ad esplorare tutto il perimetro saranno ben spese.
Ai Giardini c’ è anche Absorbing Modernity: 1914-2014 in cui oltre 60 paesi affrontano lo stesso tema, analizzando la loro produzione architettonica moderna, un confronto talvolta spietato col retaggio nazionale identitario.

Il Padiglione della Corea ha ricevuto il Leone d’Oro nelle mani del commissario capo (del Sud capitalista) per la tenacia con cui ha presentato due opere filmiche parallele e dissonanti del paese diviso, una sul fallimentare chilometrico corridoio urbano Sewoon Sangga della meridionale Seoul e l’altro sulla Pyong Yang monumentale socialista (nel Nord) di Kim Swoo Geun, un architetto capace poi di un capolavoro come lo Space Theater.

Tra i migliori Padiglioni Nazionali si possono citare quelli di Austria, Canada, Francia, Germania, Israele. Il ben gestito vicino d’ Oltralpe presenta un bianco padiglione foderato di modellini (scala 1:500) dei Parlamenti di tutto il mondo. Con prevalenza assoluta della forma del teatro antico, proiezione di un’ ideale unità, mentre il modello inglese a seggi contrapposti – pragmatica concretizzazione architettonica del conflitto di opinioni – ha fatto – ahimé – pochi proseliti.

L’ ambizioso viaggio di Koolhaas prosegue dentro l’ Arsenale con Monditalia, luogo di visioni stimolanti e delusioni cogenti. Guidati dalla Tabula Peutingeriana (V sec. d.C.), mappa-itinerario delle città romane tardo-imperiali, si marcia dietro una scansione dell’Italia dei tempi moderni attraverso 82 film e 41 casi di studio. Tra (ri)scoperte ed e/orrori noti, che testimoniano quel purgatorio ambientale in cui l’ Italia inciampa, malgrado il bello sopravvissuto. Dunque si (ri)incontrano le più note cattedrali nel deserto: Gioia Tauro e la A3 Salerno-Reggio Calabria, l’ex-Arsenale alla Maddalena (intervista a Stefano Boeri sul mancato G8), i prefabbricati a L’Aquila, il mercato dei fiori di Pescia, Milano Marittima e gli altri litorali-alveari. Poi casi diversi tra loro come Milano 2, Zingonia, fino ad esempi iconici come Villa Malaparte a Capri, Villa Antonioni in Sardegna, la Basilica di Assisi, gli affreschi senesi del Buongoverno e del suo contrario, la stazione mediopadana di Calatrava a Reggio Emilia. Ne risulta una colonna sonora orchestrata attraverso molti esempi ma orchestrabile da innumerevoli e incalcolabili altri, dodecafonica e forse cacofonica, che lascia il visitatore un po’sopraffatto dalla (dis)omogeneità di (in)successi. A Koolhaas che si domanda se quello italiano sia un modernismo di compromesso o un reale modello di successo, l’Italia è apparsa come un prototipo del mondo attuale. Coi paradossi di ieri, come la città libica di Fiorita Zahra – materializzazione quasi degli scorci metafisici di Carrà o De Chirico – di “imbarazzante bellezza” per il contrasto colla violenza della colonizzazione. E i paradossi odierni, come l’industria intorno al traffico dei rifugiati (Catalogo, pp. 366-7). In generale, nel percorso, la densità dei possibili rimandi tra testi/documenti e cinema si impone con chiarezza. Stordisce, ma (ri)lascia mille ricordi da (ri)strutturare poi “catalogo alla mano”, mentre risulta penalizzato il valore di teatranti e danzatori, che scontano la complessiva lunghezza fisica delle Corderie e dell’ Arsenale. Si torna ad un formale ottimismo con il Padiglione Italia-Innesti il Laboratorio del Moderno di Cino Zucchi, concentrato sulla “migliore cultura progettuale”, ma troppo limitato a Milano per contrastare il turbamento creato da Monditalia.

La domanda è dunque: i Fondamentali architettonici qui ripercorsi, tra rotte globali ed Italia, nel periodo 1914-2014, così empatici con la visione universale ed educativa che l’ internazionale e ultracentenaria Istituzione lagunare sta costruendo con Baratta stesso da vari anni, sono stati entusiasmanti come l’idea di partenza? Fondamentali, per ricominciare? Sulla scia del Leone d’Oro alla carriera di Phyllis Lambert, “perché ha creato architetti”, col suo CCA-Canadian Centre for Architecture, e “ha contribuito alla qualità architettonica di New York” presiedendo alla nascita del Seagram Building, Koolhaas creerà architetti a sua volta? Da professore della Harvard Graduate School of Design già lo fa. Il mentore di Rem, l’arch. Eisenman, ha letto in questa Biennale un “the end”(www.dezeen.com) e ha sottolineato che il genio di Koolhaas ha distribuito gli elementi ma, come nel ’68, non la “grammar”: forse voleva dire la “sintassi”. Ma – come hanno insegnato Wittgenstein e i linguisti – la lingua è un organismo vivo, in continua evoluzione e non sono grammatica e sintassi a strutturarla (pur servendo a descriverla e a insegnarla) ma i nessi legati all’esperienza che facciamo usandola. Rem ha fatto ricerca per due anni intorno ad un monumentale e amabile glossario tipologico specialistico “inglese”. Perché non è stato tradotto in altre lingue? I lessici tecnici dei mestieri e delle arti sono ancor più di altri emanazione diretta della praxis di un territorio. Ci auguriamo si pubblichi Elements of Architecture, la ricerca generosamente aiutata dalla Biennale, in versione economica almeno bilingue, sì da meglio diffonderla. Per ora è in vendita su Amazon, scontata per gli studenti a $***. In EU è d’ uso la disseminazione multilingue dei progetti di ricerca a finanziamento pubblico. Tra i giudizi della stampa scivolano dubbi sul rischio di una didattica senza pedagogia, come può accadere se un ricco apparato grafico è privo di un testo connettivo.
Comunque la Biennale di Koolhaas – coi suoi campionari/cataloghi in scala  – è in forte consonanza col bisogno di conoscenza di molti, oltre che colla sensibilità di manager culturale di Baratta e con i valori storici di un’Istituzione fondata 120 anni fa, proprio per dare a Venezia e all’Italia una sede adeguata alle ambizioni di un paese creativo, in concorrenza con l’enorme potere di attrazione che metropoli come Parigi e Berlino esercitavano nel 1895.

Malgrado il corretto impegno della Biennale a ricordare la sua autonomia e la sua storia, tenendo a distanza lo sconcerto generato negli stessi giorni dell’ inaugurazione (4-5 giugno) dall’ arresto del Sindaco, le cronache veneziane e milanesi hanno mostrato in modo inequivocabile che nel Belpaese i veri interessi sono altrove, e trasferite altrove stanno anche le risorse della comunità. Che, cioè, l’ambiente, la cultura e l’arte – con l’ineguagliabile fioritura che potrebbe rinnovare la fortuna di Venezia e dell’Italia- sopravvivono poveramente recuperando – da mature Cenerentole – quello che ingrati coabitanti si godono da ben più floride posizioni.
Le cronache ci abbiano abituato ad ogni tipo di azione e appropriazione contraria all’interesse generale. Quelle legate al Mose e all’ Expo – la cui condanna sarà tarata dai processi quando si concluderanno – lasciano al cittadino alcune meste certezze, delle quali non si libererà forse mai. A Venezia  -ma non solo – un’articolata rete di pochi sempreverdi dirigenti pubblici e privati, spesso buoni per tutte le poltrone, ha messo le mani per quasi cinquant’anni sulla città e sui principali canali di finanziamento delle infrastrutture che dovevano e dovrebbero essere il fiore all’occhiello dello sviluppo territoriale. Ricavandone posizioni e introiti privati da satrapi di millenaria memoria. In barba alla fragilissima bellezza della laguna e delle sue eternamente rinviate e vitali manutenzioni, che da sole darebbero lavoro alle aziende edili e ai restauratori d’arte di mezza Italia.
Quanti sprechi dobbiamo aggiungere al miliardo di Euro indicato dalla gola profonda di turno, stanco forse anch’egli, di vedere gli amministratori di turno guadagnare il doppio delle aziende? 40 anni di tangenti imponenti quanto il Mose, 40 di Consorzio Venezia Nuova che – anche da fuori- emanava un sulfureo alito di incomprensibile ingombro e strapotere urbano. Bastava vederne le sedi, anche da lontano. Bastava vedere l’ invisibile gigantesco Arsenale di Venezia – quella città nella città di cui la Biennale accortamente cerca di guadagnare qualche piccola area – restare inspiegabilmente vuoto per mezzo secolo.
Mentre – nell’Italia del dissesto geologico, dell’abusivismo e dei condoni – generazioni di geologi ed architetti invece di macinare realizzazioni su realizzazioni, faticano ad esercitare dignitosamente la professione. Basterebbe guardare dietro la porta di casa, ad esempio portare universitari, studenti e politici a fare stage di aggiornamento oltralpe -tra Austria e Svizzera- per capire come ri-disegnare il rapporto tra infrastrutture di trasporto, periferie, centri e paesaggio, cominciando da subito a rifondare l’ Italia del presente e del futuro prossimo. Il successo della stagione turistica -malgrado i tanti problemi- dimostra che la strada da percorrere è questa.

E torniamo alle arti figurative. Diversi sono gli artisti o gli ambiti culturali tra Ottocento e Novecento, ma anche del vivente contemporaneo, che rischiano l’oblio o il fallimento nell’Italia attanagliata dall implosione tutta interna di una crisi ancora senza ritorno. Oltre a spingere tanti giovani e meno giovani a cercare scampo fuori della penisola, fisicamente o virtualmente- non solo del settore culturale- i limitati investimenti stanno comprimendo tante attività ed anche ambiti solo in parte valorizzati, tra cui il nostro Ottocento e primo Novecento, col passaggio alle Avanguardie, tra Simbolismo e Liberty.

Il 2014 ha visto un’imponente esposizione sul Liberty a Forlì (San Domenico) con molti esempi delle eccellenti realizzazioni italiane, mentre il provincialismo del mercato interno li relega a quotazioni ben inferiori a quelle dei maestri stranieri.
Forse il principale apporto che la grande mostra della graziosa città emiliana ha prodotto, tramite l’attiva Fondazione (Fob), è di rendere evidente – ancor più che nelle indimenticate ricerche degli anni ’80 – che questo stile inconfondibile è stato anche italiano (oltre a Beardsley, Guimard, Horta, Van de Velde, Mucha, Klimt). Ovvero, con Raimondo d’Aronco e Antonio Sant’Elia, in architettura, Leonardo Bistolfi in scultura, Sartorio, De Carolis, Chini, Previati, Segantini, Innocenti e De Maria Bergler in pittura.

E continuando un elenco necessario e doveroso, perché non li valorizziamo abbastanza: Amedeo Bocchi, Ercole Drei, Plinio Nomellini, Cesare Tallone, Aleardo Terzi, Cesare Laurenti, Domenico Trentacoste, anche il riscoperto talento faentino Domenico Baccarini, Baldassarre ed Emilio Longoni.

Ma basta varcare le Alpi per constatare impressionanti divergenze nelle quotazioni. I valori di Segantini e Giacometti lo dimostrano. Ben rappresentati nelle mostre di importazione tra cui per Giacometti, quella svizzera alla Galleria Borghese, seguita da quella della Fondation parigina ora alla GAM di Milano e a ruota quella del MAN di Nuoro. L’astro di Klimt raggiunge cifre a 6 zeri: 66 milioni di euro il Top Lot e 29 milioni per vari incantevoli paesaggi degli anni ’10. Galileo Chini, un talento indiscusso, tale da essere invitato in Siam, ma il cui mercato ufficiale è italiano per il 92%, ha toccato in un’ asta pubblica solo i 72.000 euro per la magica veduta di Sam Phaya (1913). Senza rischiare giudizi anti-storici, la domanda è: vale Chini 100 volte meno di Klimt?
La mostra di Forlì pullulava di opere eccezionali, create da protagonisti tanto del nuovo XX secolo che del XIX tramontante, che qui hanno conquistato un’ attenzione negata loro su altri palcoscenici. I mobili Liberty e i disegni di Antonio Sant’Elia sono apprezzati in Francia e a Milano, ma possono subire sorprendenti ribassi sul mercato interno. Tra i grandi artefici del mobile Liberty, se Bugatti è ugualmente apprezzato in Francia, persino alla GNAM di Roma l’eccezionale Secretaire del 1902 firmato congiuntamente da Basile-Ducrot, Ugo e Zen non è esposto in permanenza.
La fortuna dei simbolisti e dei divisionisti italiani sui mercati è molto alterna. Malgrado la naturalezza del passaggio dall’eclettismo italiano, tanto ricco di riferimenti classici, al liberty conclamato (1895-1914), con le sue premesse al Novecento, come hanno mostrato a Forlì il bellissimo bassorilievo di Bistolfi per Ugo Rabeno e il plasticismo della Cassandra di Ercole Drei (1910). Malgrado alcune delle direzioni fondamentali del processo modernista italiano siano state lette come contrapposte dalla critica (neo-rinascimentalismo di Sartorio e neo-michelangiolismo di De Carolis e Bistolfi in opposizione al divisionismo di Segantini e Previati, ambedue nella scuderia di Grubicy de Dragon), un secolo dopo sono le contaminazioni linguistiche ad essere più evidenti. E non sorprendono da tempo i più attenti l’accento o le premesse Liberty sia di tanti campioni del Divisionismo e del Simbolismo che delle celebrità del Futurismo Balla, Boccioni, Severini (e di altri come Marussig, Casorati, di cui si è appena aperta una monografica alla Fondazione Ferrero di Alba).

E vediamo un altro ambito, strettamente connesso, che ha meritato attenzione nel 2014. La mostra su Lawrence Alma Tadema (Roma-Chiostro del Bramante, Madrid- Museo Thyssen). Costituita da 50 dipinti del collezionista messicano Simòn Peréz, illustrava bene la ventata di sensuale virtuosismo statuario e floreale che i Preraffaelliti britannici -parallelamente alle correnti continentali simbolistee- contrapposero alle abitudini dell’ Accademia e dell’ aristocrazia “saziata dai Canaletto” e da altri splendori. Cinquant’anni prima della nascita del Liberty, quell’arte vittoriana era già borghese. Influenzò profondamente D’Annunzio, Sartorio (che nello storico manuale di Argan non compare nemmeno). Dante Gabriel Rossetti, William Holman Hunt, John Everett Millais, Whistler, Edward Burne-Jones, Alma Tadema e gli altrettanto impressionanti e talentuosi John William Godward, Arthur Hughes, Albert Moore, George F. Watts, Frederic Leighton, John William Waterhouse, Edwin Long, lavorarono tutti per la borghesia industriale, che poi fece la fortuna internazionale del Liberty. Era la classe dei “nouveaux riches” dei porti e delle manifatture di Birmingham, Liverpool e Manchester e i loro pittori -pur costituendo l’antecedente diretto del Liberty- sono stati a lungo disprezzati e dimenticati. Nella mostra su Alma Tadema faceva giustizia di tanta inclemenza, ancor più del virtuosismo disegnativo e cromatico, la perfettamente assolata ed idillica atmosfera di dialogo e corteggiamento di una delle immagini-guida: “Una domanda”, una tavoletta di pochi centimetri (16×38). Trasuda passione per il Mediterraneo come tanti lavori di quell’ambito, che attualizzano riferimenti alle vestigia e alle Veneri classiche, studiatissime dagli artisti britannici, sia al British Museum che nei siti archeologici del Mare Nostrum. Ma i loro contemporanei italiani, i nostri artisti simbolisti e Liberty quando ci decidiamo a portarli all’ estero? Non ce li chiedono? Forse siamo andati noi a chiedere Alma Tadema? Non credo… Andremo a vedere le quotazioni degli uni e degli altri, tra breve, confrontando artisti coevi e comparabili per qualità e sensibilità. Portare i capolavori italiani otto-novecenteschi in tournée all’ estero (con le sempre ovvie tutele conservative) insieme a quelli antichi, probabilmente più richiesti perché già celebri, potrebbe avere esiti importanti sul medio-lungo periodo. Sono i nostri organismi di ricerca e tutela a doversi coordinare per promuoverli. Fino a quando le professionalità del nostro sistema culturale ed educativo non torneranno a proporre la conoscenza di artisti diversi dai soliti noti in modo dignitoso, l’arte italiana dovrà considerarsi in trincea.

Invece, così come le istituzioni e Civita hanno portato I maestri del Rinascimento a San Paolo e Brasilia (2013-14, più di 300.000 visitatori) dove la crescita economica è accompagnata da un’aumentata domanda di cultura, altrettanto occorre che si faccia per l’ arte italiana in ogni occasione possibile. Per ora, vi è solo il collezionismo, soprattutto internazionale, a svolgere un ruolo veramente attivo, orientato soprattutto alla massima qualità possibile, come nel caso dei mercanti di Maastricht (TEFAF) che non guardano alla nazionalità e propongono Antonio Mancini,accanto ai massimi esponenti dell’Ottocento mondiale. Ma le quotazioni sono ancora sorprendentemente lontane da Fontana e Burri, i cui prezzi sono sostenuti dalla maggiore facilità degli scambi!

Tra l’altro, la contaminazione sovranazionale dell’ immaginario artistico è sempre operante, tanto da essere stata il fil rouge sottostante della coraggiosa mostra tenutasi al Palazzo Roverella di Rovigo col titolo Ossessione nordica, grazie alla quale sono state ricostruite le consonanze di molti artisti italiani e del Triveneto come Teodoro Wolf Ferrari e Guido Marussig -trascurati internazionalmente- con misteriosi e talvolta plumbei grandi come Arnold Böcklin, Gustav Klimt, Edward Munch, od altri (oggi meno celebri, in Italia) ma eccezionali come Cuno Amiet, Ferdinand Hodler e molti altri (danesi, tedeschi, scandinavi, inglesi, belgi, ecc.). Tutti furono amanti dell’ Italia od ospiti proprio della Biennale di Venezia. Tra gli italiani trascurati: Bartolomeo Bezzi, Pietro Fragiacomo, Cesare Laurenti, Vettore Zanetti Zilla, Mario de Maria (a cui Palazzo d’Accursio a Bologna ha dedicato una mostra, a c. di G. Borsari). Si rimanda al catalogo per un elenco che sarebbe troppo lungo, e comprende anche i più noti Mariano Fortuny y Madrazo, Giorgio De Chirico, Max Klinger, Max Liebermann, Franz von Stuck, Leo Putz, Giulio Aristide Sartorio, Ettore Tito, Arturo Tosi. Su questa linea critica trasversale si muoverà anche la mostra successiva Il Demone della Modernità. Pittori visionari all’alba del “secolo breve”, che , accanto a grandi nomi nordici e del Simbolismo internazionali -James Ensor, Paul Klee, Franz Von Stuck, Leo Putz, Odilon Redon, Arnold Böcklin, M. Kostantinas Ciurlionis, Max Klinger, Gustav Moreau- presenterà opere di Guido Cadorin, Mario De Maria e Alberto Martini. Molti dipinti simbolisti, Liberty, secessionisti, divisionisti visti in queste mostre furono acquistati grazie alla Cassa di Risparmio locale durante le Biennali, a Ca’ Pesaro, alla Bevilacqua La Masa e sono oggi patrimonio della Fondazione di Venezia, erede di quelle. Ma la funzione di sostegno esercitata dall’ Ufficio Acquisti novecentesco (attivo fino agli anni ’60) è oggi ritenuta anacronistica. Difficile dire se meriterebbe un ripensamento in linea coll’ alto ruolo istituzionale -quasi di arbitro sovranazionale- che aleggia su Venezia. Certo è che la competizione sul mercato globale per talenti “periferici” rispetto ai grandi snodi del Sistema dell’ arte, è impossibile o quasi. La valorizzazione delle correnti otto-novecentesche italiane all’ estero – che pure conobbero casi fortunati come De Nittis, Boldini, Severini – può avvenire solo invertendo la direzione degli scambi, programmando e realizzando mostre che ne promuovano la conoscenza all’estero. Conti alla mano, anche in Italia come all’estero, la “conservazione dei beni culturali”, l’antico, l’Ottocento e il Novecento storicizzato rappresentano una frazione trascurabile del bilancio complessivo del sistema culturale e creativo. Pertanto, senza imputare alle ineludibili scelte di tutela e valorizzazione del patrimonio passato, l’ inadeguatezza del sistema italiano del contemporaneo – spesso additato da conferenzieri distratti- la valorizzazione deve necessariamente riguardare i talenti e la creatività dei contemporanei. Gli USA hanno saputo farlo -notoriamente- a partire dal dopoguerra, strappando a Parigi il suo primato. Tutti i paesi europei lo hanno fatto meglio dell’ Italia (Belgio, Francia, Gran Bretagna, Germania, Olanda, Svizzera) strutturando un sistema di scuole, gallerie, appuntamenti espositivi, fiere più moderno, articolato, rispettoso e remunerativo per le professionalità, i talenti e i meriti. Non si tratta di invertire la ruota della storia, ma di strategie di valorizzazione culturale che richiedono competenza, responsabilità, trasparenza verso il potenziale umano e creativo di varie generazioni. E’ quanto va praticato da Enti pubblici e privati, tra cui le Fondazioni di origine bancaria (FOB), ma anche Musei, Istituzioni culturali, Fiere di settore. I loro dirigenti, amministratori e impiegati hanno precise responsabilità verso quanti dalle loro scelte/non scelte dipendono. Quanto si prepara per l’ EXPO 2015 andrà in questa direzione?

Per lungimiranza di Baratta, presidente di lungo corso alla Biennale lagunare, chi sarà in Italia per l’ Expo avrà la possibilità di non perdere la più prestigiosa ed antica delle Biennali d’Arte. Anche se l’ ultima Biennale, quella di Gioni, è stata una vera invenzione e ha evitato brillantemente “scelte curatoriali” tutte interne al Sistema Internazionale dell’ Arte Contemporanea, a chi nuocerebbe che l’ Ente Biennale di Venezia o altri (ri)creassero un’area ufficiale per l’ acquisizione di opere di nomi nuovi, meno noti e fortunati? E’ tardi per farlo o inutile? Molti imprenditori e mecenati potrebbero palesemente farsi avanti per dare sostegno a iniziative serie e dinamiche, collocate sulla cuspide di una piramide di valorizzazione, già sostenuta senza macchia alcuna, in varie sedi e modalità. La Collezione Maramotti (www.collezionemaramotti.org) conduce da anni un moderno mecenatismo da Opera aperta, sforzandosi di estrarre dal contesto internazionale ed italiano degli artistic cases meritevoli di sostegno.

Per la fotografia è da poco attiva l’impressionante sede del MAST (www.mast.org; si veda anche, già pubblicato: www.artapartofculture.net/2014/02/06/bologna-la-dotta-decadente-rialza-la-testa-tra-larrivo-di-vermeer-virtu-dolanda-e-artefiera-2014/), che ha recentemente promosso do ut do, in cui molti designers hanno conferito in asta opere e prototipi a favore della Fondazione Hospice Seràgnoli, iniziativa ad alta valenza sociale che punta a servizi d’avanguardia nel campo delle Cure per i malati terminali.
La Fondazione Prada ha realizzato con Art of Sound uno dei più allegri e sorprendenti Eventi lagunari del 2014. Dai secenteschi musicisti-creatori di strumenti musicali ai Sound-artists del XX secolo, gli autori della Wunderkammer uditivo-sensoriale allestita da Celant a Ca’ Corner della Regina sono stati tutti esploratori ai limiti del mondo sonoro conosciuto. La Fondazione Trussardi è da tempo nell’agone acquisendo un’ esperienza che ha notoriamente portato il suo giovane direttore Gioni a maturare la curatela della Biennale stessa. Last but not least a Artissima a Torino (il Castello di Rivoli e la GAM vi figurano tra i principali compratori istituzionali) e Arte Fiera a Bologna (grazie a molti imprenditori del Nord-Est, tra cui primeggiano i Fratelli Lucchetta di Euromobil) e tanti potenziali operatori del Salone del Mobile di Milano, potrebbero concorrere ad una nuova iniziativa di alto profilo. Per finire con Pinault -collezionista e proprietario di Christie’s, che ha notoriamente alla Punta della Dogana la più bella “casa-bottega” del mondo.

Ad un coordinamento istituzionale nazionale più integrato e responsabile nell’efficace uso delle risorse – se non alla Biennale, alla Quadriennale (a chi sennò?) – potrebbe spettare ancora una volta il compito di pensare più in grande e facilitare il dialogo tra soggetti già impegnati sul fronte delle acquisizioni di opere d’ arte. Senza temere di macchiarsi con un’operazione mercantile, come molti sepolcri imbiancati potrebbero paventare, ma promuovendo una ancor più diretta e trasparente occasione per stimolare la creatività internazionale e nazionale. A livello internazionale non sconvolgerebbe nessun addetto ai lavori degno di questo nome, poiché tutti gli operatori esperti sanno quanto il mercato interessi e coinvolga accademici, universitari, direttori, ranghi ufficiali alti e medi, collezionisti-mecenati motivati al punto da sfiorare lo scambio di ruoli in direzione mercantile, magari dopo la stagione istituzionale o aziendale. Forse un organismo trasversale potrebbe ridurre l’intreccio tra proponenti, premiatori e premiati – considerato da molti un tributo obbligato alla globalizzazione culturale. Cercando una sana convergenza su un progetto comune a cui anche i galleristi, pilastri (in)dimenticati del sistema, potrebbero portare il loro contributo. Forse con un’ interazione orizzontale tra giurie e pubblico, come alcuni esempi sperimentano da tempo (?)

Tornando all’ambito istituzionale, a Milano si è vista una mostra su un grande pittore, Bernardino Luini, (ri)conosciuto per la dolcezza delle sue cromie come un leonardesco di seconda generazione, il cui progetto di ricerca ha delineato una fisionomia più completa e importante. L’ approccio dei curatori (Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa), ovvero fare della mostra una palestra scientifica per i suoi dottorandi e studenti, può essere un esempio stimolante anche per altri che vogliano girare pagina rispetto ad un business espositivo che genera talvolta pseudo-eventi culturali e -non solo in Italia- sforna anche libri inutili, perché impossibili da consultare in modo intelligente. Solo raramente con l’ indispensabile indice dei nomi. Che invece nel catalogo di Luini c’è!

A Roma, le Scuderie del Quirinale detengono secondo molti la palma della migliore programmazione espositiva della penisola, tra cui nell’anno corrente Augusto, Memling, ma anche -nella collegata sede del PalaExpo– la mostra della National Geografic Society, molto apprezzata dal pubblico. Ma le GAM e i Musei Civici (Milano, Torino, Bergamo, Roma, ecc.) propongono molte iniziative che, pur travalicando l’interesse locale, non arrivano a interessare il sovrabbondante turismo di passaggio nella penisola. A meno che non adottino mostre come Giacometti (GAM-Milano fino al 1 febbraio 2015) la loro area di influenza resta ingiustamente circoscritta agli specialisti e agli amatori. Un esempio tra molti possibili l’accurata rassegna su Delleani (2013 GAM, Milano). Ricercatissimo dai piemontesi, è uno degli artisti che ha visto un’ingiustificata picchiata dei suoi valori mercantili. Eppure a Parigi e Londra i Musei della città richiamano decine di migliaia di visitatori. Eppure il Poldi Pezzoli di Milano o il Museo di Roma di Palazzo Braschi hanno costruito nel tempo un’identità più chiara e attraente per i visitatori in viaggio in Italia. Un fitto e responsabile lavoro di promozione e valorizzazione deve essere condotto al più presto da molti altri siti.
Ne fa parte anche la competenza del giornalista-divulgatore, che nelle pagine dedicate non dovrebbe mai essere improvvisato, vista anche l’abbondanza di formazione ad hoc impartita dalle numerose Facoltà e cattedre dedicate. E torniamo così all’altra faccia della medaglia. Il riconoscimento del Valore in arte non è solo intellettuale e storico-artistico, ma filtra nelle quotazioni, che valorizzano o deprimono anche indipendentemente dalle capacità del singolo artefice. Per primi gli artisti – testimoni della creatività visiva del loro tempo – quasi sempre amerebbero vivere del loro lavoro. Sono innumerevoli i casi di opere di qualità disponibili a costi molto contenuti o molto bassi, ovunque nel mondo. Il loro apprezzamento è infatti influenzato dalla cultura personale del compratore, su cui agiscono una molteplicità assai articolata di fattori ambientali, storici, economici. Un mix dato dal contesto socio-economico e culturale. Ma laddove il mercato si restringe, nel senso che le risorse destinate a molti beni -seppure desiderati-vanno da tempo riducendosi, come in Italia (mentre in molti paesi esteri la crisi è finita da molto tempo), si ha un graduale e poi drastico ridimensionamento dei prezzi e di tutto l’indotto. Chi conserva potere d’acquisto ne può approfittare. Tristemente superficiale e distratto risulta al vero conoscitore il titolo che il glorioso “Corriere della Sera” ha lasciato apporre ad un controproducente pezzo scritto in occasione del recente Mercante in Fiera di Parma: “Aste deserte e prezzi al ribasso. L’antiquariato non seduce più.” Perché controproducente? La prima semplice risposta è che chi sa sta comprando a mani basse ai prezzi migliori. Dentro e fuori dell’Italia. Da anni le principali case d’asta mondiali hanno lasciato nella penisola solo gli Uffici di raccolta, attraverso le cui professionalità attingono per aste pubbliche e vendite private che si svolgono fuori dei confini del Belpaese. Sbagliano? No, hanno ridotto i costi, ma hanno continuato a proporre arte italiana perché richiesta. La vendono in buona parte privati italiani, che in patria vedrebbero decurtato il valore del loro bene. Se poter acquistare bene in Italia fa gola a chiunque – talvolta ci si affeziona di più proprio a quello che si ha avuto la fortuna di acquisire a poco – deludente è poi valutare per vendere, ereditare, ecc. Tra i molti assets del Made in Italy e della creazione intellettuale che dovremmo difendere in ogni sede possibile, vi è la produzione artistica, antica come contemporanea. in cui a pieno titolo credo nessuno oggi non ponga anche le opere d’ arte private, oltre che pubbliche. Il ministro Franceschini ha appena riproposto che con esse si possano pagare le tasse. Eccellente, visto che non sono poche le opere che hanno una vocazione museale e pubblica. Altre no, o non necessariamente. Ma anche qui si torna al “valore”. Un esempio a caso: Paolo Sala – un ottimo artista milanese, a cavallo tra Ottocento e Novecento -, presente nella Collezione Cariplo. Suoi scorci di Londra e Mosca sono passati in asta a Londra a cifre a 4-5 zeri (60.000-135.000 Euro). In Italia scorci urbani o di borghi antichi arrivano al massimo a 2000- 10000 Euro. I periti italiani come lo valuteranno? Ovvio: si avvicineranno a quanto conviene al Ministero delle Finanze e a quello dei Beni Culturali (?!). Il complesso iter procedurale per l’ esportazione di artefatti aventi più di 50 anni, la potenziale cieca applicazione della norma e la conseguente difficoltà di scambi, hanno contribuito a provocare un impoverimento ingiustificato dei valori di riferimento di tutta l’arte dentro il territorio nazionale -anche quella dei Musei – ed hanno anch’essi aggravato lo stato di sofferenza ed implosione del valore aggiunto delle arti e delle professionalità che se ne occupano. Mentre proliferano gli incompetenti che se ne fanno scempio agli angoli delle strade, come ad esempio coloro che arpionano i turisti nelle botteguccie intorno ai Musei Vaticani, specie di rivenduglioli dell’arte. La solidità delle quotazioni dei diamanti – e del mondo che vi gira attorno- non è legata alla loro rarità (in natura sono molto più rare le belle pietre di colore, come rubini e smeraldi) ma alla certificazione e alla tutela internazionale che ne fa quasi una moneta di scambio, riconoscibile ovunque. Conviene all’ Italia la vecchia scelta legislativa di continuare sistematicamente a calmierare ufficialmente o rendere molto difficoltoso lo scambio internazionale di opere d’arte del suo territorio – anche quando non rivestono interesse per lo Stato – forse con l’anacronistica motivazione che non si ripetano le “oceaniche” cessioni che arricchirono le collezioni dei magnati americani? E’ meglio illudersi che le frontiere siano invalicabili o converrebbe dare certezze e fiducia al mercato con regole chiare, qualificazione del sistema di certificazione e degli operatori, incoraggiamento degli scambi?

E infine: fa il giornalista un buon servizio al lettore e all’ingiustamente asfittico settore, se accomuna il mercato interno italiano con quello globale di fascia media, che malgrado aree di flessione ha tenuto dappertutto meglio, rispetto all’Italia?

Persino gli spagnoli vengono a comprare in Italia, se c’è il prezzo. Le aste vanno deserte quando sono squilibrate, ma solo chi è esperto sa quando rappresentano un efficace canale di vendita, grazie alla competizione che si crea in sala. Eppure, è proprio nelle gallerie e nelle botteghe antiquarie deserte e negli eventi come il Mercante in Fiera di Parma, che i (migliori) mercanti offrono esperienza ed opportunità interessanti. Ma se – a fronte dello storico interesse a collezionare dell’ italiano – viene oggi a mancare l’entusiasmo della raccolta, la ragione principale è probabilmente nella diminuita propensione alla spesa in generale. Che ormai tocca anche la Germania, dopo Spagna e Francia. Mentre l’isolano “God save the Queen” è salvo. Si salvino Italia ed Europa, guardando gli esempi riusciti.

70 capolavori della Sonnabend Collection sono ospiti a Ca’ Pesaro- Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro nel quadro di un depositi a lungo termine.

Alla Fondazione Cini è stata allestita una bella mostra sull’opera scultorea degli eredi Venini, Laura e Alessandro Diaz de Santillana. I due “fradei”, morto il padre e vendute manifattura e marchio nel 1985, hanno proseguito sulla strada del vetro, non senza ostacoli. Nessuna fornace veneziana diede spazio ad Alessandro per fondere i suoi lavori e si ritrovò a NY, in un posto dove fondevano bottiglie di Coca Cola. Catalogo.

Deve essere citata la rivelazione rappresentata dal grande franco-russo Mikhail Roginsky (Mosca, 1931-Parigi, 2004) vista a Ca’ Foscari. Ancora visibili fino alla fine di novembre: all’Isola di San Giorgio, l’ispirata Tea House di Hiroshi Sugimoto: “una casa modesta dove si possono sentire gli uccelli cantare” e la mostra su Carlo Scarpa alla Fondazione Querini Stampalia.

Fino a marzo: Arte e vita di Luisa Casati tra Simbolismo e Futurismo al Museo Fortuny.

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Laureata e specializzata in storia dell’arte all’Università “La Sapienza” di Roma, ha svolto, tra 1989 e 2010, attività di studio, ricerca e didattica universitaria, come borsista, ricercatore e docente con il sostegno o presso i seguenti istituti, enti di ricerca e università: Accademia di San Luca, Comunità Francese del Belgio, CNR, ENEA, MIUR-Ministero della Ricerca, E.U-Unione Europea, Università Libera di Bruxelles, Università di Napoli-S.O Benincasa, Università degli Studi di Chieti-Università Telematica Leonardo da Vinci. Dal 2010 è CTU-Consulente Tecnico ed Esperto del Tribunale Civile e Penale di Roma. È autrice di articoli divulgativi e/o di approfondimento per vari giornali/ rubriche di settore e docente della 24Ore Business School.

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