Mostre da non perdere

Felice CASORATI Bambina su tappeto rosso, 1912, Gand, Museo delle Belle Arti

Dopo soli 6 anni dalla precedente antologica di Edward Hopper (1882-1967) potrebbe sembrare ridondante ritrovarlo a Roma, al Vittoriano di Piazza Venezia fino al 12 febbraio 2017, dopo Palazzo Fava-Bologna. Invece la straordinaria qualità di oli ed acquarelli, il  profondo radicamento nell’amore per la pittura europea e impressionista, il suo viaggio di formazione a Parigi e in Europa (1906-1910,  si veda il saggio di Sasha Nicolas), pur nella raggiunta iconica celebrità americana, tanto nei temi che nella collocazione fisica dei suoi prestatori (Withney Museum), giustificano pienamente questa iniziativa, da non mancare (catalogo Skira a cura di Barbara Haskell). Hopper pensava e agiva come un architetto della luce: “È all’inizio che bisogna andare lenti, quando si comincia, per tracciare…una composizione impeccabile in modo da non dover aggiungere e sottrarre dopo.” E i suoi dipinti non hanno nulla a che fare colle meccaniche riproduzioni stampate che tutti hanno negli occhi. Carter E. Foster, già curatore dell’antologica del 2010 alla Fondazione Roma, ha scritto un saggio rivelatore sui disegni e le motivazioni profonde del lavoro di Hopper, tra realtà e invenzione.

Nel catalogo c’è anche un’interessante carrellata su crediti e debiti col cinema coevo (Luca Beatrice), che  spazia dalle sue predilezioni per il campo medio e la “soggettiva” – quell’effetto di  “spiare dal buco della serratura” – fino all’inquadratura ripresa come da un dolly. Ed è proprio il linguaggio filmico che ne ha fatto un classico moderno e universale, in cui descrive vividamente  l’alienazione e la solitudine moderna. Un immaginario trasmigrato, o meglio  condiviso dal cinema noir statunitense e da Hitchcock in particolare, così come da Elia Kazan, Michelangelo  Antonioni, Wim Wenders e molti altri.

(si legga anche: www.artapartofculture.net/2016/10/02/edward-hopper-racconta-di-silenzi-e-solitudini-contemporanee-in-mostra-al-vittoriano).

La figura e l’opera di Antonio Ligabue (1889-1965) nei decenni trascorsi dalla sua morte  hanno finito per essere circoscritti dall’isolamento (è del  1961 la prima personale alla Galleria della Barcaccia di Roma) e poi da una certa aura maledetta da piccolo schermo, sopravvissuta allo sceneggiato di Salvatore Nocita (1977). Invece, l’ampiezza della mostra apertasi al Vittoriano di Roma (120 opere, da un corpus di circa 900-1000 dipinti, fino al 29 gennaio) fa giustizia del preconcetto (ri)sedimentatosi da allora fino ad oggi. Le sue eccezionali capacità di disegnatore autodidatta, l’ espressionismo drammatico che traeva alimento dal suo personale tragico destino, confermato dalla morte in ospedale psichiatrico,  fanno delle miserie di cui tanto soffrì  un corollario biografico rispetto alla forza del suo talento. Pur nella sua evidente alterità e distanza, restano sorprendenti alcune tangenze con Van Gogh, sia sul piano compositivo che di colorista. Un’acuta osservazione della vita animale e della lotta per la sopravvivenza  sono di alimento per la sua pittura, più naturalista agli inizi, contrastata e violenta nella produzione matura (molto più che in Rousseau le Douanier),  così come la sua meno nota attività di scultore e di incisore. Un elemento evidenziato dalla mostra  è la coesistenza nella sua produzione di due filoni tecnico-stilistici paralleli, uno estremamente accurato e ricco di vibrazioni materiche e cromatiche e l’ altro, assai più veloce e  sintetico. La loro compresenza nel tempo è verificabile  attraverso le molte  coppie di repliche autografe di  soggetti come ad esempio Cavalli imbizzarriti, Volpe in fuga, Diligenza con paesaggio, ecc. Del viscerale e visionario genio abbandonato di Gualtieri (Reggio Emilia) il catalogo riporta le toccanti testimonianze di amici ed anfitrioni, da Marino Mazzacurati e Luigi Bartolini fino a Cesare Zavattini.

(si legga anche: www.artapartofculture.net/2016/12/29/antonio-ligabue-e-le-bestie-nel-cuore-mostra-al-complesso-del-vittoriano).

Le Gallerie d’Italia di Milano, l’importante complesso museale privato collocato tra i guichets di Piazza della Scala dal 2015, ospita Bellotto e Canaletto, che è destinata a lasciare un segno importante nella memoria e nell’ esperienza di appassionati e di addetti ai lavori. Potrebbe essere una delle migliori mostre dell’anno (fino al 5 marzo 2017). Curata da Anna Bozena Kowalczyk ha tra i suoi principali obiettivi quello di mostrare, attraverso 100 opere di cui 62 di Bellotto e 10 di Canaletto, non solo il loro meraviglioso apporto al Vedutismo veneziano, ma anche secolari e squisite problematiche attributive, dipanate sotto gli occhi dei visitatori come fossero  semplici. Torneremo sull’argomento con un’intervista alla curatrice.

www.gallerieditalia.com/it/milano/bellotto-e-canaletto-lo-stupore-e-la-luce

Sempre a Milano, al Palazzo Reale è ospitato un ambizioso progetto scientifico su Rubens e l’Italia di Anna Lobianco, già amata direttrice della Galleria Nazionale di Palazzo Barberini di Roma.  Talento potente, tanto come artista che come intelletto umanista, Rubens abitò 8 anni in Italia a partire dal 1600. Vi arrivò dopo un viaggio a cavallo dalle native Fiandre, non ancora 23enne, studiandovi italiano e latino, per integrarsi al meglio. Suscitava “fiducia e concordia” (parola di Burckhardt) e,  anche al rientro nei Paesi Bassi del Sud, le sue capacità relazionali furono tali da portarlo due volte al cavalierato per volontà di Carlo I d’Inghilterra e Filippo IV di Spagna, malgrado un’Europa divisa dai conflitti religiosi e dalla Guerra dei Trent’anni.

Nominato pittore di corte dagli arciduchi Alberto d’Austria e Isabella, dopo la morte dell’amata moglie, assolse numerosi incarichi diplomatici che lo portarono in Belgio,  Francia, Spagna, Olanda e Inghilterra.

Uno degli obiettivi della mostra è di indagare affinità e debiti con gli artisti e l’arte d’ Italia, antica e del suo tempo. Dalla statuaria classica, fino a Tiziano, Tintoretto, Veronese e Correggio, Michelangelo, Raffaello e Leonardo (Battaglia di  Anghiari). Proponendo inoltre una mappatura del suo influsso sugli artisti italiani più giovani, protagonisti del Barocco, attraverso un corpus di oltre 70 opere, di cui 40 del grande maestro fiammingo.

L’impressione suscitata dalla scultura classica su Rubens è la chiave per capire i suoi santi, rappresentati come eroi o statue antiche, ivi compresi quelli della Chiesa di Santa Maria in Vallicella, la più frequentata della Roma pre-barocca, in cui ha lasciato la sua  più importante opera italiana (1606, su ardesia): una novità di cui è partecipe Lanfranco nonché la schiera dei più celebri talenti del Seicento, a loro volta debitori del grande genio anversese, Pietro da Cortona, Bernini, Luca Giordano e Salvator Rosa.

Tra gli esempi della inesauribile compenetrazione di arti, artisti e stili, propria di ogni tempo e contemporaneità, possono essere brevemente ricordati qui, per  il Compianto sul Cristo morto della Galleria Borghese (1603), l’ Estasi della Maddalena, l’ Adorazione dei  pastori di Fermo (da Correggio, Caravaggio, ma poi ripresa da Pietro da Cortona) e così via…

La mostra si apre con una panoramica sul mondo familiare e culturale più prossimo a Rubens: meraviglioso il Ritratto della figlia Clara Serena (1615-16, Vienna, Collezione Lichtenstein, da cui proviene anche il  Ganimede). Seguono quelli della moglie Isabella Brant (1626, Firenze, Uffizi), del primo mecenate Vincenzo II Gonzaga e di Gaspar Scioppius (c.a. 1606, Palazzo Pitti, Firenze). Della ritrattistica rubensiana non potevano mancare testimonianze dell’attrazione di Rubens e del fratello Philip per il circolo neo-stoico di Justus Lipsius che rammentano la speciale atmosfera della casa di Rubens di Anversa (Rubenshuis). Nel quadruplice ritratto di Firenze (1611-12, Palazzo Pitti) dei  quattro tulipani in vaso davanti al busto di Seneca, i due sfioriti alludono alla dipartita di Philip e Justus. Il rapporto con l’antico e con lo stoicismo è più che mai palese nel raffronto tra  Seneca e il busto di casa Orsini e nel monocromo del Cammeo dell’Apoteosi di Germanico. Il Giovan Carlo Doria di Palazzo Spinola (1606) è un capolavoro della ritrattistica equestre, anticipatore delle prodezze dell’ allievo Antoon Van Dyck.

Per dare una sintetica percezione dell’intensità e varietà dei reciproci influssi tra Rubens e gli altri talenti del secolo (in uscita e in entrata) evidenziati dal progetto, vanno ricordate anche la sua scelta di arricchire ritratti realistici con dettagli dal mondo antico, che fu trasmessa a Van Dyck e a  Diego Velasquez, e le tangenze col lavoro di Lanfranco e Bernini, rese  in mostra con esempi delle Fatiche di Ercole. Le sezioni “Furia del pennello”, con la Battaglia dello Stendardo (1601-3, Vienna Gemaeldegalerie), e  “La forza del mito”, coll’ invenzione allucinata di Saturno che divora i suoi figli, ben rappresentano la dirompente forza creatrice con cui Rubens rielaborerà in uno stile sempre più personale e monumentale quanto sedimentato della cultura italiana,   nell’ attività matura fiamminga e sovranazionale.

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Da non molto chiusasi con un “record di presenze con 37.000 visitatori” la mostra I Nabis, Gauguin e la pittura italiana d’avanguardia, al Palazzo Roverella di Rovigo (nabisgauguin.palazzoroverella.com/2017/01/18/record-di-presenze-la-mostra-chiude-con-37-000-visitatoriche conferma la sua vocazione istituzionale a indagare ambiti internazionali in forte risonanza cogli artisti veneti o dell’area mitteleuropea, spesso non sufficientemente valorizzati. Così tra i meriti di questa esposizione, ricca di opere di grande qualità, aleggiava quella fertile avversione verso un naturalismo tout court, preferendogli l’espressione della  realtà interiore dell’artista, quando lavora su memoria e immaginazione. Vari i dipinti bellissimi: a cominciare da quelli bretoni di Robert Brough, Paul Gauguin (Donna di schiena 1896), Emile Bernard (Costa bretone, 1891),  Paul Serusier (1892),  Georges Lacombe (1893-4), Paul Ranson (Anatre, 1894 e Merenda, 1896), Charles Filiger (Fantasia, 1890-92), Jan Verkade (Le sette principesse,1892), Cuno Amiet (Bretone, 1892);Georges Daniel de Monfreid e Maurice Denis (Bella al crepuscolo 1892 e Dessert nel giardino, 1897). E’ un’arte della sintesi (Sintetismo), parte di un più vasto Simbolismo pittorico pieno di  corrispondenze di forme e colori. In risonanza e pienamente al passo con questo grande cammino europeo si posizionavano (come stanno) il nitido ed emozionante naturalismo simbolico di Moggioli (Burano, 1915) e di Gino Rossi  (Paesaggio di Burano, 1912 e Barene a Burano, 1912-3). Infine, le vetrate di Wolf Ferrari a cui era stato avvicinato in mostra Felix Vallotton (Ritratto di signora, 1909 e xilografie); hanno impressionato (e lasciano il segno  sempre) le opere di Oscar Ghiglia (Donna che si pettina, 1909, Ritratto di  Ugo Ojetti, e Toilette della sig.ra Ojetti del  1908, Conca con frutta, 1908-9), quelle di Mario Cavaglieri (Giulietta, 1922), Felice Casorati (Bambina su tappeto rosso, 1912) e  Cagnaccio di San Pietro (Allo specchio, 1927 e Natura morta con uovo, 1939).

www.palazzoroverella.com

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Laureata e specializzata in storia dell’arte all’Università “La Sapienza” di Roma, ha svolto, tra 1989 e 2010, attività di studio, ricerca e didattica universitaria, come borsista, ricercatore e docente con il sostegno o presso i seguenti istituti, enti di ricerca e università: Accademia di San Luca, Comunità Francese del Belgio, CNR, ENEA, MIUR-Ministero della Ricerca, E.U-Unione Europea, Università Libera di Bruxelles, Università di Napoli-S.O Benincasa, Università degli Studi di Chieti-Università Telematica Leonardo da Vinci. Dal 2010 è CTU-Consulente Tecnico ed Esperto del Tribunale Civile e Penale di Roma. È autrice di articoli divulgativi e/o di approfondimento per vari giornali/ rubriche di settore e docente della 24Ore Business School.

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