Biennale di Venezia 2019: May You Live In Interesting Time. Una 58. Esposizione Internazionale d’Arte cino-americana

immagine per Venice Biennale 2019 Arsenale. ph. LTraversi

All’Arsenale abitato in questo 2019 dalla Biennale di May you live in Interesting Times (https://www.labiennale.org/it/arte/2019) dell’americano Ralph Rugoff si marcia lungo le Corderie (e oltre, poi ai Giardini) come su un palcoscenico, incrociando molte macchinerie davvero teatrali, che – malgrado  le appassionate  attese e l’interesse per la Biennale, Venezia e il nostro Tempo – finiscono col creare una certa sotterranea ed inspiegabile distanza.

La volontà diffusa di creare un coinvolgimento in grande cede il passo ad una violenta stimolazione sensoriale (visiva, uditiva…),  che reiterandosi finisce per farci migrare  verso la sensorialità tout court. A tal punto, le installazioni vorrebbero catturarci/provocarci (provocare chi? Noi? Pubblico, appassionati dell’artworld, governanti, plutocrati in vacanza, critici, maschi, donne?) che ogni tanto tiriamo avanti senza dare loro peso, come un passaggio obbligato, col rischio che si ammetta inconsciamente d’essere caduti in una convenzione.

Per fortuna, le reazioni sono individuali: emozioni e tecniche mnemoniche (es. smart-foto) degli osservatori si differenziano, come si può constatare auscultando/consultando il Rugoff-pensiero e le reazioni online dei colleghi della stampa, specializzata e non.

Queste brevi considerazioni trovano  riscontro nel saggio curatoriale  (“…le opere d’arte sono transazioni collaborative… propongono al pubblico vari punti d’accesso, presentando elementi immediati e coinvolgenti.”). Subentra però anche una certa incredulità: ad  esempio, non lasciano una  traccia speciale le foto de “l’attivista visivaZanele Muholi.

Il problema è che la moda si è già appropriata di tutto da tempo e, malgrado l’autenticità della sua  lotta per l’identità africana, persino i suoi bellissimi autoritratti da neo-Medusa (ad es., avvolta in spire di cavi) qui (proprio qui!) sanno di fashion. Un rischio che Massimiliano Gioni era riuscito ad evitare con la sua Biennale del 2013, che ospitava con grande dignità molti sconosciuti accanto ad artisti celebrati dall’Art System.

Rugoff  ha scelto solo artisti viventi, al centro del contemporaneo hic et nunc; nulla da dire, in teoria, ma ci salviamo dall’ indifferenza grazie alle eccezioni al gigantismo prevalente, che per fortuna ci sono. Mentre le fondazioni d’arte governano sempre più il nostro immaginario.

Il curatore è simpatico ed ironico, sembra suggerire di non prendere troppo sul serio il grande giocattolo: davvero apprezzabile; ma da un’angolazione europea ed italiana – che pure può esistere – siamo talmente interessati a veder sopravvivere ai tempi le troppe generazioni in difficoltà (ad esempio quelle giovanili italiane, prima che diventino anch’esse  minoranze in via di estinzione) da avere l’obbligo di prendere molto sul serio la Biennale Internazionale.

Stiamo equivocando? Le indicazioni del curatore però combaciano colle impressioni spontanee. E’ infatti importante notare che i messaggi potenziali di molte opere non sono univoci; ad esempio, le sculture biomorfiche della coreana Anicka Yi sospese sopra crateri aperti sul suolo, invece che allusioni a crisalidi/escrescenze malate possono sembrare lanterne dorate galleggianti in un misterioso paesaggio lunare.

Meno equivocabile pare il lavoro di  altri, come Carol Bove che  fa dell’acciaio smaltato (giallo) una specie di nastro organico spiegazzato.

 

Poi ci sono i fondali marini delle gemelle australiane naturalizzate USA, Christine e Margaret Wertheim: sono fatti di  centomila minuterie industriali e artigianali (sono dichiaratamente opere collettive). Anche qui  ritorna il trompe l’oeil (o c’è del citazionismo da  Joana Vasconcelos?). La gigantesca passeggera piegata ad uovo sul sedile – in posizione di sicurezza in attesa dello  schianto – della cinese Yin Xiuzhen rimanda ad un’inconscia reminiscenza iconografica dei Faraoni seduti  dell’ Antico Egitto? O no?! No, perché in questo “ibrido meccanico-sartoriale” si usa materiale riciclato!

Ma  anche in questo caso, pur dichiarato palesemente, in certe maschere afro-americane l’arte contemporanea sfiora o utilizza i mezzi o le maschere del Natale e del Carnevale dell’altrimenti detto folklore? E’ da molto prima del  Ready Made e del Pop che siamo addestrati ai culti pagani, ma qui il rischio è di provocare assuefazione e indifferenza: che si ripresenta infatti – malgrado le indubbie capacità di pittori – quando si arriva alle tele di Michael Armitage (Kenia) e di altri; e che riappare ai Giardini, dove il Padiglione USA ospita – di stanza in stanza – un carretto di pioniere ed altro di Martin Puryear,  simili a enormi e fotogenici  oggetti di design…: colonizzati da Instagram o da IKEA? Il dubbio ci assale.  Ma certe cose non le avevano già fatte altri, tra Jeff Koons, Damien Hirst e Maurizio Cattelan?

Ha l’aspetto di belve in gabbia la pala meccanica che deterge un fluido color sangue scuro  (versato in quale guerra? Terremoto? Ops…: non sarà mica  sangue mestruale?) e pure la canna a pressione che frusta le pareti  dei cinesi Sun Yuan e Peng Yu. Altro macchinario teatrale è quello dell’indiano Shilpa Gupta che manda (rumorosamente) a sbattere contro il muro una cancellata di ferro (…e non  è Teresa Margolles, come ha equivocato un collega!).

Non è tanto il lavoro del/della  singolo/a artista, alle cui motivazioni gli art-addicts più sinceri  sono sempre recettivi ma, nel rispetto di tutte le forme d’arte, il circo della Biennale (di cui tutti noi osservatori, professionali e non, partecipiamo un pochino) ci piacerebbe continuasse a puntare in alto, come ci si è sforzati di  fare da molti anni. L’insistenza sulla violenza (sonora, visiva, simbolica,materica, ecc.) rischia di sfociare in una maniera politically correct, esibita e ripetitiva  che lascia un gran vuoto concettuale, intellettuale e di spirito.  

Fanno eccezione le tante testimonianze dei soldati di Neil Beloufa che diventano documentazione e reportage, tanto semplice quanto vero: come l’arte che resta nel tempo è spesso stata. E fa eccezione anche quell’iperbolico Mercato dell’ucraina Zhanna Kadyrova, trompe l’oeil con passione e cura al massimo grado.

Alcune caratteristiche abbastanza diffuse come la costosa manipolazione di materiali nuovi (metalli, plastiche riciclate, tecnologie digitali) riportano alle aggressive, seppur interessanti,  presenze di mercato che ricorrono ad Art Basel e al Tefaf nelle gallerie cinesi e del sud-est asiatico.

Una Biennale cino-americana, forse? Ovvero: internazionale nel pubblico coltivato degli appassionati ed art-lovers tanto apprezzato anche dai veneziani, ma con un’asse post-americana? E’ forse una delle chiavi di lettura  della difficile sintesi possibile al cronista. Giusto o sbagliato che sia, lo confermano i numeri: su 79 artisti invitati (presenti sia all’Arsenale che nel Padiglione Centrale dei Giardini) sono in 25 a lavorare negli Stati Uniti, e 6 nella Repubblica Popolare Cinese. Nulla di così sorprendente, ma l’Europa? Gli altri vivono in 12 a Berlino, 7 a Parigi, 4 a  Londra e così via, diminuendo.

Questa Biennale, come tutte le cose umane, riflette lo stato delle cose? Forse per  questo le dà il titolo un detto cinese mai esistito? Il clima, se non le parole d’ordine del dibattito/scontro politico-culturale americano, la geopolitica del Pacifico, sottostanno e influenzano oltremodo le scelte curatoriali? Dunque l’indipendenza dalla politica della Biennale internazionale (partecipata dai tanti che firmarono nel 2011 per la presidenza Baratta) ci aveva sin qui salvato?

E’ davvero inedita la fatica di scrivere che provoca la Biennale di quest’anno. In compenso ci sono delle cose facili e sempre uguali: il cous-cous che si mangia ai Giardini (buono), la tortura di certe file inspiegabili (Padiglioni di Francia e  Gran Bretagna) mentre tutto fila come l’olio al Padiglione cinese (curatissimo), Swatch che sponsorizza la Biennale, Baratta con la faccia crucciata (ma la voce incrinata alla Conferenza Stampa non l’aveva mai avuta: che gli sia sorto qualche dubbio?).

Siccome io non riesco davvero ad essere spiritosa su questi temi, per farvi due risate leggete altrove quanto firmato da colleghi e scriveteci i vostri commenti dopo essere stati a Venezia!

Tutte le letture appaiono possibili, persino troppo aperte, dal momento che la Biennale spesso non dà  il catalogo ai giornalisti “perché costa”,  o lo dà sottobanco (che pena!) e, se nella cavalcata degli openings si legge il cartellino sbagliato o si va alla mostra accanto, che non è realmente una Collaterale della Biennale, per alcuni non c’è  tempo né modo di correggere prima di andare in stampa. Occhio, quindi, al senso degli eventi  (https://www.labiennale.org/it/arte/2019/eventi-collaterali,) Tra quelli meno visibili meritano  http://www.museopinopascali.it e Förg in Venice per la generosa cornice del privato Palazzo Contarini Polignac).

Biennale 2019 Collaterals Events Forgs in Contarini Polignac Palace. ph. LTraversi

Prima di partire per Venezia, meglio prepararsi (come con Gambero Rosso o  Trip Advisor), tanto per evitare che  il bisonte biennalistico conti solo sui  cowboys dei media generalisti che spingono  la mandria dove deve andare a pascolare (v. i peana incondizionati di  taluni e gli attacchi all’arma bianca di altri). Su uno dei molti equivoci  v. “Artribune” per un pezzo al vetriolo su un vernissage colle bandierine di Lorenzo Quinn [N.d.R: figlio d’arte di una madre divorziata dall’attore Anthony] partito con pochi sponsors…

Il circuito dei Musei Civici (MUVE) si distingue con varie mostre da non perdere (per usufruire di migliori condizioni economiche per farlo, munirsi di Museum Pass. A Palazzo Ducale con Canaletto e Venezia  (ma solo fino al 9 giugno) si documenta una lettura integrata dello sviluppo della pittura settecentesca delle Tre Venezie, da Carlevarijs (che era friulano) ad Antonio Canaletto e Giambattista Tiepolo passando da Giambattista Piazzetta, Sebastiano e Marco Ricci.

Sempre importante la sosta a Ca’ Pesaro. Anche quest’anno non delude con una notevole antologica dell’ importante  astrattista americano Arshile Gorky 1904-1948 (fino al 22 settembre). Naturalizzato USA, dai tragici inizi (le persecuzioni turche, la morte per fame della madre), seppe conquistare un posto di rilievo nella grande Mela (l’origine armena si palesò alla moglie solo anni dopo la sua morte). Ne sono tracciate anche le ricerche d’avvio, intorno alle avanguardie e a Cezanne. Da fare: una  rentréè nella Collezione permanente, coi suoi  Medardo Rosso, Balla, Boccioni, Klimt, Wildt, Martini. Seguono  le risonanze metafiche e poi di Novecento, e realismo, primitivismo e molto altro in De Chirico, Sironi, Campigli… fino a Vedova ed Afro.

 

Inevitabile mitizzare un po’ la visita a Palazzo Fortuny, vera perla lagunare, che dopo anni di iniziative ideate da Daniela Ferretti in collaborazione coll’intraprendente Vervoordt  Foundation, dedica un  approfondimento alle figure dei suoi creatori Fortuny padre e figlio, ovverosia Mariano y Marsal e Mariano y Madrazo (fino al 24 novembre; attenzione: biglietto escluso dal Museum Pass).

Difficile dire se nel loro inesausto lavoro convergano o piuttosto si irradino i tantissimi frutti artistici della cultura internazionale a cavallo tra simbolismo, orientalismo, Liberty e Post-impressionismo, continuando all’ avvio delle avanguardie e dopo. La cornucopia del loro lascito, vista dalle meravigliose sale del palazzo veneziano, abitato ora anche da notevoli prestiti (Prado, Ermitage, Puskin, Qatar, Goya, Dalì) si evidenzia in tutta la sua abbondanza ed importanza.

Oggi che le mode globalizzate guardano per lo più altrove, malgrado il successo in vita, nonostante l’ammirazione tributatagli anche dai parigini contemporanei (ivi compreso Goupil che non riuscì a farlo trasferire, Cat. p.26) la risonanza mondiale del loro nome ha ceduto il passo ad altri astri del Modernismo e le loro quotazioni non sono ancora stratosferiche.

“Per i Fortuny collezionare è una forma di apprendimento funzionale alla creazione artistica” (Cat. p.17) e,  incontrando la moglie Henriette, Mariano figlio creerà quella poliedrica fucina creativa che da Palazzo Pesaro degli Orfei sciamerà nella Fortuny Venise, manifattura ancora visibile alla Giudecca, accanto al Mulino Stucky, con diramazioni commerciali e prodotti artistici e tessili ineguagliabili, in tutto il mondo. Intensa la mostra del coreano Yun Hyong-keun.

Da non perdere, alla Fondazione Cini, nell’isola di San Giorgio, la bella antologica su Alberto Burri curata da Bruno Corà (fino al 28 luglio, a ingresso gratuito): ripercorre l’originale cammino delle sue sperimentazioni, materiali e linguistiche, dai rari Catrami e  Muffe  degli anni  Quaranta fino ai Sacchi monumentali, per approdare a Combustioni, Legni, Plastiche, ed infine ai Cretti e ai Cellotex.

Nel bellissimo  Palazzo Cini c’è la piccola mostra del superquotato Adrian Ghenie,  fino al 18 novembre (catalogo a cura di B. Corà e Luca Massimo Barbero, col sostegno di Tornabuoni Art).

La mostra di Jannis Kounellis alla Fondazione Prada-Ca’ Corner della Regina è proprio come la immaginate.

Buon viaggio

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Laureata e specializzata in storia dell’arte all’Università “La Sapienza” di Roma, ha svolto, tra 1989 e 2010, attività di studio, ricerca e didattica universitaria, come borsista, ricercatore e docente con il sostegno o presso i seguenti istituti, enti di ricerca e università: Accademia di San Luca, Comunità Francese del Belgio, CNR, ENEA, MIUR-Ministero della Ricerca, E.U-Unione Europea, Università Libera di Bruxelles, Università di Napoli-S.O Benincasa, Università degli Studi di Chieti-Università Telematica Leonardo da Vinci. Dal 2010 è CTU-Consulente Tecnico ed Esperto del Tribunale Civile e Penale di Roma. È autrice di articoli divulgativi e/o di approfondimento per vari giornali/ rubriche di settore e docente della 24Ore Business School.

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