Ana Mendieta, l’anima della Natura

Lo splendido corridoio della Manica Lunga del Museo del Castello di Rivoli che accoglie la prima retrospettiva in un museo pubblico italiano (a cura di Beatrice Mertz e Olga Gambari), è un percorso narrativo, lineare, un filo che si dipana e aiuta a districare il misterioso labirinto della vita e della poetica di Ana Mendieta (L’Avana 1948 – New York 1985), 130 lavori realizzati dal 1972 al 1985, tredici anni durante i quali ha sperimentato quasi tutte le tecniche artistiche, fotografia, video, performance, pittura, scultura, disegno, negli Stati Uniti, in Messico, Italia, Cuba.

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L’Ana Mendieta degli esordi pare ricercare i propri confini, schiacciando il corpo nudo su una lastra di vetro (Glass on Body Imprints – 1972), che lo deforma ma lo definisce, ci restituisce una traccia bidimensionale e le permette di sentirsi. Il percorso espositivo inizia con l’impronta netta della sua mano, che marchia letteralmente a fuoco le venature della tavola di legno sulla quale è impressa, segnando anche chi la guarda e che piaccia o meno, non potrà cancellarne la memoria.

I suoi linguaggi, le sue parole, sono di terra, di acqua, di fuoco, di aria e di carne e di sangue.

Il corpo e la Natura sono chiamati a rappresentare l’entità assoluta; un corpo attraverso il quale ha sperimentato come se non le appartenesse, che ha esposto senza risparmiarsi, come se non potesse rimanere segnato dal percorso artistico, mai separato da quello esistenziale e che le è servito da tramite, da voce. Un corpo che è stato sradicato dalla terra d’origine, alla quale ha cercato di tornare continuamente, usando ogni strategia possibile, per recuperare la propria identità.

Spiega lei stessa, chiaramente:

“Rimasi per la prima volta affascinata dalla cultura e dall’arte primitiva durante la mia infanzia a Cuba. Queste culture sembrava fossero dotate di una conoscenza interna, una vicinanza alle fonti naturali. Questo senso di magico, la conoscenza e il potere che si trovano nell’arte primitiva hanno influenzato la mia personale attitudine alla creazione artistica. Nel corso degli ultimi dodici anni ho lavorato all’esterno, nella natura, sfruttando la relazione tra me stessa, la terra e l’arte. Mi sono immersa negli elementi stessi che mi generarono, utilizzando la terra come tela e la mia anima come strumento”.

All’inizio è solo lei, Ana-anima latina, nuda, i lunghi capelli neri, che la avvolgono, la impastano, la fasciano.

La postura, con le braccia alzate simili ai rami di un albero, diventa concretamente strumento per tracciare i segni sulla superficie, alla quale è appoggiata, quasi crocefissa, le mani arrossate dal sangue. E’ sufficiente arretrare, da questa posizione, avvicinando via via le mani, per delineare sul muro o a terra, una forma che ricorda un albero o un canale uterino. Da qui nasce Ana Mendieta artista, è una performance che ripete spesso, variando le condizioni, al muro, a terra, con o senza abiti addosso, ma lasciando la stessa, identica immagine.

Dal 1973, anno che la vede lavorare molto sul tema della violenza alle donne, un altro elemento inizia a diventare predominante, il sangue o il colore rosso che lo richiama: se lo fa colare addosso, lo usa per rituali che ricordano la santeria tipica della sua terra d’origine, accompagnandolo anche a piume bianche delle quali si ricopre (Bird Transformation), o lo fa scorrere da una botola davanti un edificio (Moffitt Building) e dall’interno di un’auto parcheggiata proprio di fronte, spia e riprende le reazioni dei passanti. La religione, il simbolismo sincretico di sacro/profano, torna anche nelle opere realizzate con arbusti spinosi all’interno dei quali pone un cuore (El Corazon), altro elemento ricorrente, in concreto o stilizzato nei disegni o nei bozzetti.

Molte delle sue performance sono ambientate all’aperto, nei boschi; a Rivoli il video del toccante Mirage I e l’espressione, intensa fino al turbamento, con la quale si guarda e ci guarda attraverso uno specchio, la fa somigliare ad una creatura animale. In Corazon de Roca con Sangre del 1975 scava nel terreno scuro la sagoma del corpo, mette una tintura rossa all’altezza del cuore, si adagia dentro, a faccia all’ingiù, per annullare i tratti umani del viso e diventa parte del suolo.

Dal 1974 inizia la serie delle sue famose Siluetas, sagome femminili che ricava da qualsiasi elemento trovato in natura, terra, neve, sassi, ghiaccio, erba, conchiglie, foglie e fuoco (in Anima, Silueta de Cohetes). Scavata nella sabbia, striata di rosso, la forma è data dall’acqua di mare che a ondate, la riempie.

In seguito compaiono i temi rituali della sepoltura, della morte, Tombs è un cumulo sul quale traccia simboli molto simili ai geroglifici egizi, o in Black Ixchell, Candle Ixchell, 47 candele nere rituali, profilano un corpo.

La figura con le mani alzate al cielo, come un’offerta al divino, nel tempo cambia, diventa un simbolo archetipico; impastata con la materia naturale, le braccia seguono le forme dei fianchi, li prolungano e le gambe si avvicinano tra loro, prende le sembianze di una sorta di amuleto, di statuetta della Grande Madre; poi il ritorno dell’uso del proprio corpo, avvolto nel sudario (Burial Piece), come un bozzolo, senza arti, in posizione fetale, raccolto, come d’abitudine in alcuni tipi di inumazione.

Si prepara ad unirsi completamente alla Natura, alla quale ha fatto ossessivamente offerte e riti? Ha subito una sorta di involuzione, di viaggio al contrario di ritorno alla terra madre, al profondo, all’antico, alle origini?

Nel 1980 finalmente ciò avviene, ritorna a Cuba per la prima volta, da quando a dodici anni aveva dovuto lasciarla e ritrova tutto ciò che aveva respirato da bambina e che le stato strappato, compresa l’identità. Le opere qui vengono realizzate come sculture rupestri, alla ricerca della propria preistoria, dell’antico e vi si ricongiunge. Nel 1983 vince il Rome Prize dell’American Academy e si trasferisce per circa un anno in Italia, dove produce le Figura de Fango e comincia a progettare gli elegantissimi lavori che realizzerà rientrata a New York, con polvere da sparo e tronchi d’albero (Totem Grave).

Purtroppo, però, l’8 settembre del 1985 si interrompe tragicamente, in circostanze che a tutt’oggi ancora non sono ben chiare, la sua esistenza, la vita di Ana Mendieta, durante la quale ha ricercato e reiterato un cerimoniale di offerta, un sacrificio alla Natura, che alla fine sembra venga accettato, consentendola ricongiungersi con il proprio divino:

“Credo nell’acqua, nell’aria e nella terra. Sono tutte divinità”.

Presentato in mostra anche il documentario Itali-Ana. Mendieta in Rome, con la regia della nipote Raquel Cecilia Mendieta, che ha recuperato le testimonianze della permanenza in Italia dell’artista, dei rapporti intrecciati con i colleghi, delle ricerche, degli incontri.

Info mostra:

  • Ana Mendieta. She got love
  • Mostra curata da Beatrice Mertz, Olga Gambari
  • Dal 30 gennaio al 16 giugno 2013
  • Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea
  • Piazza Mafalda di Savoia
  • Tel. 0119565280
  • www.castellodirivoli.org
  • Orario d’apertura: da martedì a venerdì: 10.00 – 17.00 
-sabato e domenica: 10.00 – 19.00
  • In occasione della retrospettiva è pubblicato un catalogo edito da Skira con testi dei curatori, apparati bio-bibliografici e una ricca selezione di immagini e durante tutto il periodo della mostra verrà proiettato il documentario Itali-Ana, Mendieta in Rome sul periodo romano dell’artista, con la regia di Raquel Cecilia Mendieta. La mostra è realizzata in stretta collaborazione con l’Estate of Ana Mendieta e la Galerie Lelong di New York.
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Vive a Bologna, dove lavora come logopedista al Servizio di Neuropsichiatria Infantile occupandosi prevalentemente di disturbi della comunicazione, del linguaggio e dell'apprendimento, è appassionata da sempre di Arte, in qualunque forma si presenti. Da alcuni anni ha iniziato un percorso nel campo della fotografia

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