W. Eugene Smith: la fotografia come ricerca dell’assoluto. Ossessione o genio?

immagine per W. Eugene Smith
Eugene Smith_Mill Man Loading Coiled Steel - MAST

Il nero impera. Le ombre, la caligine, i fumi delle città industriali, le ferite sulla pelle, rispecchiano l’animo cupo e travagliato di W. Eugene Smith (1910, Wichita, Kansas – 1978, Tucson, Arizona).
Una storia personale difficile fin dalla più giovane età, quando il padre si suicida e la madre, estremamente religiosa, gli impartisce un’educazione rigida, traspare in molte sue fotografie che appaiono come negativi, dove il nero predomina e cede al bianco il compito di definire i contorni.

La vita di Eugene Smith è una costante lotta contro le difficoltà, economiche (rinuncia a contratti di lavoro sicuri e remunerati per dissidi, vende casa per sostenere progetti che lo lasciano però senza risorse), di salute (è gravemente ferito mentre si trova in Giappone come corrispondente durante la seconda guerra mondiale e ne patisce le conseguenze per molti anni), emotive e in primo luogo, forse anche contro sé stesso.

E’ un uomo alla continua rincorsa della perfezione, di un ideale di completezza e verità che si possa dire assoluto. 

Ha rapporti conflittuali con la moglie e i quattro figli, dai quali si separa per misurarsi con i suoi sogni; è solitario, tormentato, sempre insoddisfatto dei risultati, battagliero nelle cause che sposa (dal 1971 al 1975 vive in Giappone e si associa ai movimenti di protesta ambientalista) e per questo viene licenziato diverse volte dalle riviste per le quali lavora, tra cui Newsweek e Life, quando non è lui stesso a lasciarle. 

Il rifiuto delle illusioni consolatorie, la sensibilissima umanità, tutto ruota intorno al nucleo del suo progetto che a tratti diviene l’ossessione di essere presente per assistere al preciso momento in cui la verità si rivela. La sua narrazione per immagini è chirurgica, riesce ad arrivare al “nervo scoperto” con i reportage nelle zone di guerra, sul lavoro del medico del villaggio, della levatrice, degli operai delle fabbriche o sugli effetti devastanti dell’inquinamento (realizza una straziante “Pietà”, ritraendo una madre che tiene in grembo il corpo della figlia, consumato dall’intossicazione da mercurio).

La fama ottenuta come fotoreporter non lo placa e nel tentativo di aggiungere alla testimonianza la densità dell’arte, si spinge sempre oltre, come un acrobata su una fune tesa tra l’essere giornalista e artista.

Vuole autenticità pura, si sacrifica all’arte, ma puntando a mete ideali, è inevitabilmente destinato al fallimento. 

Quando si trasferisce a New York, nel quartiere dove domina il jazz, la sua casa si popola di animi inquieti come il suo. Thelonious Monk trascorre spesso le nottate a fumare e a suonare nel suo soggiorno, tirando mattina. Come risultato, nel suo archivio custodito a Tucson, al Center for Creative Photography dell’Università dell’Arizona, oltre alle foto e agli scritti, si trovano anche moltissime registrazioni delle sessions musicali realizzate nel suo appartamento.

Per la prima volta in Italia, al MAST di Bologna a cura di Urs Stahel, dal 17 maggio al 16 settembre, nella mostra “Pittsburgh. Ritratto di una città industriale”, sono esposte circa 170 stampe vintage provenienti dal Carnegie Museum of Art di Pittsburgh, raccolte dal 1955 in quella che è stata la più importante città industriale del primo ‘900, un’opera sofferta e toccante, drammaticamente vera.

Per potersi completamente votare a quest’ennesima impresa, si svincola dal contratto con la rivista Life. E’ profondamente affascinato dalla città in rapida evoluzione, dalle storie dei lavoratori che vivono le contraddizioni tra condizioni estreme e promesse di felicità e progresso; ma la dimensione del progetto gli sfugge di mano, arriva a scattare 20.000 negativi e 2000 masterprints, inseguendo l’illusione di rivelare l’anima della città, di afferrare l’essenza stessa della vita umana.

Non riesce nell’intento, impossibile, sovrumano, totale di ottenere il libro definitivo su Pittsburgh, allora nel 1959 pubblica solo parte del lavoro su Photography Annual, perché la rivista gli concede piena libertà su 36 pagine, che diventano “Pittsburgh. W.Eugene Smith’s Monumental Poem to a City” e da queste è estratta la selezione esposta al MAST, ricca anche di testi, per meglio conoscere il pensiero dell’artista, che a proposito dell’opera, afferma:

“L’individuo, in questo saggio, è una parte del gruppo che si crea all’interno di quell’insieme brulicante che è la città, al singolare. E poi nel mio progetto, l’individuo da conoscere, è Pittsburgh, la Città di Pittsburgh.”

Smith ha dell’arte una visione quasi sacrale che carica di un potere salvifico. Secondo lo storico dell’arte John Berger autore del saggio “Pietà: W. Eugene Smith”, tutto ciò è da ricondurre al rapporto dell’artista con la madre, severa ma molto amata: ogni segno che Smith ha portato sulla propria pelle, permette a noi spettatori, secondo Berger, di 

“vedere al di là delle menzogne, delle vanità, delle illusioni della vita di tutti i giorni. Il suo eccezionale uso del bianco e nero era strettamente connesso al suo senso della vocazione. Attraverso l’oscurità si appropia del mondo: lo trasforma in un cupo, terribile teatro morale dove le anime cercano bellezza e redenzione. […] La luce era speranza.”

  • W. Eugene Smith – Pittsburgh Ritratto di una città industriale
  • MAST, Via Speranza 42, Bologna
  • 17 maggio – 16 settembre 2018 
  • www.mast.org
  • Ingresso gratuito
  • Orari di apertura
  • Martedì – Domenica 10.00 – 19.00
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Vive a Bologna, dove lavora come logopedista al Servizio di Neuropsichiatria Infantile occupandosi prevalentemente di disturbi della comunicazione, del linguaggio e dell'apprendimento, è appassionata da sempre di Arte, in qualunque forma si presenti. Da alcuni anni ha iniziato un percorso nel campo della fotografia

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