Uniformi e divise. Al MAST di Bologna unicità e omologazione a braccetto

UNIFORM _ MAST ph. FEDERICA CASETTI

L’emozione non arriva subito. Ci lascia salire la rampa di accesso al museo, superare Reach, l’opera di Anish Kapoor, sempre diversa da sé nel dialogo con l’intorno, che oggi non riflette nemmeno una nuvola: la superficie a specchio ci restituisce un cielo terso e un sole che la trasforma in un taglio netto, accecante.
Finalmente l’ombra dello spazio coperto che anticipa l’ingresso.
Entriamo, nessuna sorpresa per ora, ma il piacere delle opere che accompagnano il visitatore dal primo momento, assieme alla cura che si respira ovunque, in questo luogo.
Anche per questo, abbiamo scelto di ricominciare da qui, in sicurezza, in tutti i sensi.
Ma appena scorre la grande parete vetrata che dà accesso alla prima sala, arriva quell’emozione. Ci aspettava, paziente, da tempo, ci siamo imposti per “causa di forza maggiore”, di metterla in secondo piano, le priorità erano altre e le abbiamo rispettate.

Ci ha attesi e gliene siamo grati. Il periodo surreale che viviamo ha cambiato il nostro quotidiano, nulla è uguale a prima e dunque anche il rapporto con l’arte è diverso, le immagini associate alle varie fasi della pandemia creano interferenze, sono una presenza costante, pur se a livello inconscio, che introduce altre modalità di percezione degli stimoli.

Lo sguardo cade subito su una piccola e commovente foto di Graciela Iturbide, una semplice casacca chiara appesa sul bancone di un mercato a Città del Messico (nei pressi Vigili del Fuoco, del 1935, di Manuel Alvarez Bravo del quale la fotografa messicana è stata prima allieva poi collaboratrice), in forte contrasto con la grande immagine di Stephen Waddell, un uomo asiatico, in completo bianco e cravatta blu, compiaciuto della propria eleganza eccentrica. Sulla sinistra una donna in divisa da guardasala, ci osserva in silenzio e poi inaspettatamente, parte “Into the groove” di Madonna, la sua canzone preferita.

Un po’ d’imbarazzo, devono esserle sembrati infiniti i sette minuti circa che sono serviti all’artista Marianne Mueller per riprenderla, durante il lavoro al Peabody Essex Museum, il più antico museo degli Stati Uniti e realizzare uno degli otto video dal titolo Portraits (Guards), presenze intense, distribuite nelle sale del MAST, omologate nell’uniforme, ma con piccoli segni distintivi che apportano un tocco personale, otto storie che possiamo leggere nella postura e negli sguardi, nella musica che le accompagna. Sempre Mueller firma un altro lavoro, la serie dedicata ai dipendenti della catena svizzera di supermercati Migros, iniziata con una committenza e mai utilizzata dall’azienda, perché ritenuta non consona, non abbastanza “pubblicitaria”.

Curata da Urs Stahel, quella del MAST di Bologna è un’esposizione ricca di contrasti e doppia, una grande collettiva dal titolo UNIFORM e una monografica di Walead Beshty, RITRATTI INDUSTRIALI.

Dato il tema, la divisa da lavoro, sono moltissimi i ritratti presenti e un posto d’onore lo riconosciamo ad August Sander, il fotografo tedesco che alla fine degli anni ’20 pubblica il libro Face of our time, tratto dalla serie People of the Twentieth Century, un documento fotografico fortemente inviso al regime nazista, perché ritenuto in conflitto con il concetto di superiorità della razza ariana: sarà colpito da censura e vedrà distrutta una parte dell’opera, ma per Sander, cresciuto in un ambiente multiculturale, ogni individuo ha una propria dignità, a prescindere dalla propria occupazione o estrazione sociale e i suoi ritratti ce la restituiscono chiaramente.

Tra le molte immagini esposte ci sono gli ultimi della Terra, come i minatori di Song Chao o uno degli operai che hanno spento gli incendi dei pozzi petroliferi in Kuwait, dopo la guerra del Golfo, alla fine degli anni ’90: un tragico clown, devastato dalla fatica e privo di protezioni per la sicurezza e la salute (ne moriranno molti), nello scatto di Salgado, l’opposto di Fred con gli pneumatici, ironico e muscoloso giovane, che ammicca all’obiettivo di Herb Ritts.

Il tema dei dispositivi di protezione individuale è trattato da Sonja Braas in Un eccesso di cautela, tre tute monouso, a grandezza naturale in uno spettrale bianco e nero, che nell’intenzione dell’artista ci parla di ansie e paure immotivate e sono invece le stesse che indossano gli operatori a contatto con i malati di COVID-19.

Ci sono poi i potenti, quelli che regolano le nostre sorti, i Krupp, i capitani d’industria di Clegg & Guttmann, volti e mani su fondo nero, pochi elementi sufficienti però per individuare chi sta al vertice del comando o Angela Merkel della quale i nove ritratti di Herlinde Koelbl (dal primo del 1991, in sequenza temporale), forniscono un’interessante testimonianza dell’evoluzione dello sguardo, della postura e naturalmente degli abiti, con l’aumentare del potere.

Molti tra i personaggi che incontriamo inseguono un’unicità che, se portata all’estremo, sfugge facendoli invece scivolare in un’omologazione che balza agli occhi nel corposo work in progress di Walead Beshty, indagine fotografica nel mondo degli addetti ai lavori in campo artistico, dai tecnici, ai curatori, ai galleristi, ai trasportatori, agli artisti stessi. In alcune occasioni è francamente difficile distinguere i ruoli, appoggiandosi solo all’aspetto esteriore, ognuno ricerca uno stile proprio, un elemento distintivo, con uno sforzo tale da ottenere l’effetto paradosso di calarsi involontariamente nello standard.

Sbaglia chi parte prevenuto, chi si aspetta da questa mostra una proposta prevedibile; troverà sì i classici, Salgado, Evans, Penn, Ritts, Sander, ma non solo.

Ci sono immagini che documentano le condizioni di lavoro da un punto di vista sociologico, politico, ci sono i segni lasciati sul volto, come nell’opera di Rineke Dijkstra che fotografa Olivier, un ragazzo che si arruola nella legione straniera e lo ritrae sei volte durante i trentasei mesi di addestramento, che lo cambiano inevitabilmente, nell’espressione del volto e nel corpo.

Ci sono monaci e suore che annullano le forme del corpo sotto l’abito e gli spogliarellisti che se lo tolgono per esaltarlo. Ma c’è anche chi, come la giovane Weronika Gesicka destabilizza e turba con la manipolazione degli stereotipi di bellezza e felicità, trasformando rassicuranti foto vintage in inquietanti cloni che sfumano fino all’annullamento dell’identità.

Il nostro consiglio, dunque, è di affidarsi in questo percorso, sia a chi ci accompagna fisicamente con una possibile lettura, sia a quell’emozione per fortuna solo in parte accantonata, che ci trova sì cambiati, ma ancora aperti e disposti a seguirla.

Info

  • Artisti in mostra: Paola Agosti, Sonja Braas, Sergey Bratkov, Manuel Álvarez Bravo, Ulrich Burchert, Song Chao, Clegg & Guttmann, Hans Danuser, Barbara Davatz, Rineke Dijkstra, Alfred Eisenstaedt, Walker Evans, Arno Fischer, Roland Fischer, André Gelpke, Weronika Gesicka, Brad Herndon, Liu Heung Shing, Graciela Iturbide, Tobias Kaspar, Herlinde Koelbl, Hiroji Kubota, l.G. Rose Commercial Photographer, Erich Lessing, Danny Lyon, Doug Menuez, Marianne Mueller, Nasa Photographs, Helga Paris, Paolo Pellegrin, Irving Penn, Andri Pol, Marion Post Wolcott, Timm Rautert, Herbert Ritts, Judith Joy Ross, Sebastião Salgado, August Sander, Oliver Sieber, Hitoshi Tsukiji, Albrecht Tübke, Florian Van Roekel, Stephen Waddell
  • Dal fino al 20 settembre 2020
  • MAST.GALLERY / FOYER
  • Via Speranza, 42,  Bologna
  • Ingresso solo su prenotazione per obblighi preventivi Covid-19: scrivere a gallery@fondazionemast.org o telefonare al numero +39 345 9317653
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Vive a Bologna, dove lavora come logopedista al Servizio di Neuropsichiatria Infantile occupandosi prevalentemente di disturbi della comunicazione, del linguaggio e dell'apprendimento, è appassionata da sempre di Arte, in qualunque forma si presenti. Da alcuni anni ha iniziato un percorso nel campo della fotografia

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