Vedute dall’Emilia Romagna. La fotografia e il lavoro nella mostra al MAST di Bologna.

MAST - William Guerrieri_serie Il Villaggio, 2009, Collezione MAST

Ceramica, latte, macchine e logistica – Fotografie dell’Emilia-Romagna al lavoro, curata da Urs Stahel è la mostra fotografica proposta dal MAST di Bologna fino al 25 settembre 2016. L’esposizione si sviluppa idealmente lungo la linea della Via Emilia, tema condiviso con la recente edizione di Fotografia Europea tenutasi a Reggio Emilia; si tratta di una riflessione sullo sviluppo economico e paesaggistico che ha interessato l’Emilia Romagna e sui cambiamenti avvenuti nella produzione industriale della Regione, sia su larga che su piccola scala, negli ultimi vent’anni.

 

Tra i 17 fotografi protagonisti, William Guerrieri, Guido Guidi, Walter Niedermayr hanno incontrato il pubblico proprio al MAST con il curatore della mostra, per analizzare, ognuno con ben distinte peculiarità, il ruolo del medium fotografico nel rendere la propria idea del territorio e delle modifiche subite dal recente passato. Ognuno di loro, non a caso, è parte di quello che resta uno dei progetti più incisivi sviluppati sull’argomento, cioè Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea, con sede a Rubiera (RE), che si occupa di coordinare e realizzare indagini fotografiche sui mutamenti del paesaggio fin dal 1989, quando questo era segnato dagli agglomerati urbani posti lungo la Via Emilia e autori come Olivo Barbieri, Axel Hutte, Paola De Pietri, John Gossage, Francesco Jodice, Stephen Shore, Franco Vaccari, hanno portato avanti una ricerca sul senso del luogo, dello spazio, come identità.

“Inizialmente, in questi lavori – afferma William Guerrieri (Rubiera RE, 1952) – le immagini, singole e a colori, riportavano esterni perfettamente riconoscibili, con un’attenzione storica allo spazio ripreso che dava la sensazione di “ultima occasione”, colta prima dello stravolgimento completo. Infatti una decina di anni dopo la situazione era radicalmente cambiata, con la comparsa delle tangenziali, dei centri commerciali, delle linee dell’alta velocità ferroviaria e la presenza di immigrati si intuiva già significativa. Di conseguenza la fotografia si è adattata a questo processo, per esempio sono state introdotte le tecniche della messa a fuoco selettiva di Olivo Barbieri, le serie e i dittici di Walter Niedermayr, i frammenti visivi di Paola De Pietri, a testimoniare la difficoltà di rendere un’immagine unitaria del territorio e la perdita dell’identità intrinseca (proprio di De Pietri è “Seccoumidofuoco”, incentrato sul settore della lavorazione della ceramica, cui il titolo della mostra fa riferimento). 
Una serie di progetti, dunque, che si rapporta in termini conoscitivi della realtà in evoluzione, cui si aggiunge il contributo culturale e storico rispetto al mezzo fotografico”.

Guerrieri sottolinea poi il proprio interesse per le immagini aziendali o familiari realizzate da autori anonimi, in particolare per l’estetica e il valore documentario che queste offrono. Ne Il Villaggio è protagonista un agglomerato artigiano progettato dall’architetto Mario Pucci di Modena nei primi anni ’50 per un gruppo di  lavoratori che, licenziati dalle fabbriche, su consiglio dell’allora sindaco Corassori, aprirono attività in proprio. Foto dello stesso Guerrieri si accompagnano ad anonimi dell’epoca che trasmettono chiaramente l’idea di progresso e modernità del progetto, connotate da una forte valenza politica e sociale. Similmente, The Dairy (Il Caseificio), racchiude la storia di un complesso industriale che nell’anno di costruzione, il 1963, rappresentava il perfetto esempio di efficienza, tanto da divenire set fotografico per la pubblicità del Parmigiano Reggiano; in seguito lo stabilimento viene considerato obsoleto e inadeguato ai livelli produttivi e definitivamente chiuso nel 2007.

Guido Guidi (Cesena, 1941) presente in mostra con numerose opere, proprio da queste dà avvio al proprio racconto:

“L’architettura è un elemento costante nella mia fotografia, con le case, gli edifici “marginali”, le fabbriche, i piccoli opifici. A fianco di un grande mangimificio vicino a Savignano sul Rubicone avevo ritratto un’officina artigianale che produceva le capriate per altri capannoni e che è poi diventata l’immagine di chiusura del progetto ”Viaggio in Italia”, condiviso con Luigi Ghirri. A distanza di qualche anno sono tornato sullo stesso luogo per vedere come il tempo l’avesse cambiata e non era più in attività, alcune parti erano già state dismesse, si indovinavano già i primi sintomi della crisi economica. Quando fotografo, c’è in me il tentativo di capire cosa vedrebbe un oggetto se potesse guardare, un po’ come Edward Hopper, che inizialmente usava introdurre alcune figure umane nei suoi dipinti, per indirizzare lo sguardo dello spettatore. Via via poi, si è liberato di questo stratagemma, passando a quello che era il suo scopo principale e dichiarato: semplicemente cogliere la luce del sole sulla parete di una casa. Ho lavorato in modo simile, per esempio, fotografando la casa di un custode e mi sono posto non di fronte, altrimenti le finestre avrebbero guardato me, ma di lato, per inseguire lo sguardo ulteriore, verso qualcosa che per noi non è visibile.
In mostra al MAST c’è una mia foto tratta dalla serie “Rimini Nord”, scattata con la tecnica della messa a fuoco selettiva per sottolineare il dettaglio di un oggetto che pare avere due piccoli occhi che guardano l’orizzonte, una mia dichiarazione poetica a ciò che vede la macchina fotografica, l’oggetto che aiuta noi fotografi a vedere meglio. E proprio a questo proposito, come esercizio di conoscenza e di crescita professionale e personale, mi succede di fermare l’auto perché attratto da un particolare interessante, scendere e scattare esattamente dalla parte opposta per scoprire ciò di cui ancora ignoro l’esistenza.”

Domandiamo a Guidi quale sia il motivo della sua caratteristica preferenza per le stampe piccole, poco ingrandite:

“Voglio che la fotografia sia veramente come la realtà. Fin dall’inizio, il 1956, ho usato il medio e grande formato, che ingrandivo solo due o tre volte; sono infastidito dall’effetto sgranato, mi piace invece che la texture della fotografia corrisponda a quella dell’oggetto ritratto, per esempio un muro segnato, perchè, come sosteneva anche John Szarkowski (fotografo, critico e storico statunitense), la grana, come l’attuale pixel, è sempre uguale a sè stessa, quindi noiosa, a differenza della pennellata di colore sulla tela, che diventa interessante anche come materia. Con il grande formato e il banco ottico, ricerco un’esperienza sia mentale che concreta, prodotto della mia fatica fisica che si trasferisce alla macchina e rende l’immagine più densa di significato, in primo luogo per me stesso. Voglio che la fotografia sia una sorta di preghiera, che necessita di impegno e presenza”.

Il terzo protagonista, Walter Niedermayr (Bolzano, 1952), fin dall’inizio degli anni ’80 concentra il proprio sguardo sul territorio delle zone alpine, che conosce fin dalla nascita e sull’architettura nel paesaggio, lo spazio costruito o meglio “culturale” (secondo la sua definizione, per distinguerlo da quello naturale), attento a cogliere ogni segnale di adeguamento al turismo di massa, a novità ed eventi pensati per attrarre il pubblico o di interventi che snaturano un luogo, come per esempio il verde reimpiantato in seguito alla tracciatura delle piste da sci. Suoi tratti distintivi sono le sovrapposizioni e le ripetizioni di particolari, stimoli ad una riflessione sulla nostra percezione visiva, che potremmo descrivere come un continuum di immagini che ci scorre davanti. Il lavoro impostato per offrire vari punti di vista di uno stesso oggetto, in serie di due o tre foto, serve a dare dinamicità.

Nell’esposizione al MAST si trovano i lavori sulla TAV Milano – Bologna, iniziati nel 2004 e portati avanti per oltre un anno. In particolare ha ritratto i cantieri della zona di Modena, una sorta di fabbrica mobile, nella quale sono stati impegnati circa 2.500 operai in ciclo continuo. In questo caso l’interesse è rivolto alle ripercussioni che un progetto di queste dimensioni ha sull’ambiente, sulla natura, sulla vita delle persone coinvolte e sul paesaggio.

“L’uso di colori tenui e il chiarore diffuso – dichiara Niedermayr –  hanno a che fare con il rendere visibile, il far luce su un argomento, di certo forzando le regole fotografiche che normalmente definiscono corretta un’immagine, in realtà senza il timore di spingersi oltre l’etica fotografica”. 

Assieme alle opere dei fotografi sono presentate alcune immagini di scena tratte dal film Il deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni e alcuni video tra cui La Via Emilia è un aeroporto di Franco Vaccari (che presenta l’arteria stradale che taglia la Regione sia come un’importante via di comunicazione sia come luogo di lavoro di prostitute).
Quale side event a livello 0 del MAST viene proiettato il documentario Le radici dei sogni – L’Emilia Romagna tra cinema e paesaggio girato nel 2015 da Francesca Zerbetto e Dario Zanasi. Il lavoro, prodotto dalla Cineteca di Bologna e MaxMan Coop, con il sostegno della Regione Emilia Romagna e della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, racconta un viaggio nei paesaggi della Regione che ha nutrito le fantasie di alcuni tra i più importanti registi del cinema italiano e internazionale.

A completare il percorso, un’esposizione di 35 volumi su ambienti, contesti e realtà dell’Emilia Romagna, messi a disposizione da Linea di Confine.

Info

  • Ceramica, latte, macchine e logistica – Fotografie dell’Emilia-Romagna al lavoro
  • A cura di Urs Stahel
  • 4 maggio – 25 settembre 2016
  • dal martedì alla domenica 10/19 – ingresso gratuito
  • Fondazione MAST , Via Speranza, 42 40133 Bologna
  • 051/647 4345  –  www.mast.org
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Vive a Bologna, dove lavora come logopedista al Servizio di Neuropsichiatria Infantile occupandosi prevalentemente di disturbi della comunicazione, del linguaggio e dell'apprendimento, è appassionata da sempre di Arte, in qualunque forma si presenti. Da alcuni anni ha iniziato un percorso nel campo della fotografia

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