Richard Mosse con Displaced. La nuova frontiera del fotoreportage. Al MAST di Bologna

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“Quando abbiamo finito di istallare questa mostra, due mesi fa, abbiamo ballato e speriamo di poterlo rifare presto”, così si salutano Urs Stahel, il curatore e Richard Mosse, l’artista, concludendo l’incontro di presentazione della mostra Displaced. Migrazione Conflitto Cambiamento Climatico, al MAST di Bologna fino al 19 settembre 2021, allestita e poi rimasta ad attendere che le condizioni legate alla pandemia ne consentissero l’accesso al pubblico.

Richard Mosse (Kilkenny, Irlanda, 1980), in collegamento da New York, è appena rientrato dal Brasile, uno dei luoghi al centro del proprio lavoro di documentazione, presentato al MAST nella prima corposa antologica con una selezione di opere che va dagli esordi, quando era ancora studente universitario, ai progetti più recenti.

Durante la conferenza stampa, Mosse si concede ad un lungo scambio sul focus della propria produzione artistica che fin dal primo impatto, non può lasciare indifferenti, per le imponenti dimensioni delle opere, le tecnologie impiegate, le tonalità e i colori saturi, stranianti e innaturali che dominano la scena.

Tutto sembra, tranne la fotografia di denuncia a cui siamo ormai abituati. E proprio questo è il core… siamo davvero assuefatti alle immagini forti? Cosa può ancora scuoterci, veicolare un messaggio forte, di dolore, bellezza, malinconia, ingiustizia?

Lo sforzo di Mosse è ridare nuova linfa alla fotografia documentaria sperimentando  tecniche di ripresa che di certo hanno poco a che fare con il fotogiornalismo classico anzi, spesso, tale strumentazione è classificata come arma strategica di derivazione militare.

Il paradosso perfetto perché, afferma lo stesso artista, “l’arma è puntata contro l’osservatore, contro lo spettatore”, che viene a trovarsi tra la realtà del contenuto e la forma surreale, in un’ambiguità che crea tensione, disagio e fascinazione.

Mosse inizia a fotografare circa vent’anni fa e viaggiando fra i teatri di guerra ricerca non il momento del combattimento, ma ciò che ne è seguito, lasciando a noi il compito di ricostruire mentalmente il precedente.

Al MAST i lavori Kosovo (2004) ci mostrano le rovine architettoniche post belliche, Breach (2009) le proprietà e le decine di palazzi, simbolo del potere di Saddam Hussein in Iraq, occupati dalle truppe americane dopo la caduta del dittatore, Nada da declarar  (2007) i flussi migratori al confine USA/Messico e poi ancora le guerre in Palestina e in Bosnia, portando a galla lo scempio dell’architettura, della cultura, del paesaggio, dei popoli, di tutto quanto si cerca di annullare, memoria compresa.

Dal 2010 il fotografo irlandese si dedica per diversi anni al progetto Infra, in Congo, una delle più belle, ricche e massacrate regioni del continente africano.

La lunga storia di sfruttamento di questo paese inizia tra il XVI e il XVII secolo con il mercato di schiavi diretti in Brasile, nei paesi arabi e in occidente.

Divenuto poi colonia belga, fornisce gomma e legname e in seguito oro, diamanti, stagno, zinco, rame, cobalto, fino al più recente coltan, un metallo altamente tossico (raccolto per lo più a mani nude), dal quale si ricava il tantalio, componente essenziale dei nostri device elettronici.

Nemmeno l’indipendenza, ottenuta nel 1960 migliora le condizioni; si conta che, solo dal 1996, siano state oltre sei milioni le vittime di guerre, violenza, malnutrizione, malattie, inquinamento, ma di questi dati difficilmente si trova traccia, perché gli interessi economici sono prioritari.

Allora Mosse sovverte le regole del reportage, solitamente asciutto, descrittivo e lo interpreta con gli strumenti dell’arte concettuale, così che nella nostra mente si fissi la sua testimonianza, “perché nessuno più si scordi del Congo” – afferma – e degli avvenimenti che lo insanguinano.

Stravolge l’immagine con la gamma dei rosa, dei rossi della Kodak Aerochrome, la pellicola degli anni sessanta utilizzata dall’esercito per individuare i bersagli mimetizzati nelle foreste: un processo chimico rende il supporto ad infrarossi sensibile alla clorofilla e vira i colori del paesaggio, ottenendo una visione quasi psichedelica, che infrange le aspettative dell’osservatore, lo trascina dentro l’opera dal grande formato e lo immerge nella scena, investendolo di bellezza e di tragedia.

Della stessa serie anche la video istallazione The Enclave, già esposta alla Biennale d’Arte di Venezia nel 2013.

Dal 2014 al 2018 per il progetto Heat Maps sperimenta un’altra particolare tecnica di ripresa, sempre di derivazione militare, con la termocamera.

Questo complicato sistema rileva, anche a grande distanza (fino a 30 km), le variazioni di calore di uno scenario e realizza attraverso migliaia di scatti, una mappatura completa di ogni minimo particolare, nella quale ci si può perdere, priva del punto di vista del fotografo, perché si sposta continuamente.

Per l’opera Skaramargas (7,33 metri) sono 1500 gli scatti registrati e poi assemblati tra loro, con un lavoro di precisione straordinario. Ne risulta una sorta di gigantesco grandangolo, che descrive la vita dei migranti nei campi profughi di Grecia, Turchia, Germania, Libano.

L’effetto dei lunghissimi tempi di ripresa è spettrale, fantasmatico, i soggetti sono delineati ma non hanno tratti riconoscibili e il loro movimento fa sì che si ritrovino contemporaneamente, in parte o per intero, in diverse zone dell’immagine.

Le opere, a distanza, possono ricordare le incisioni di Giovanni Battista Piranesi, il bianco e nero è ugualmente pastoso, grafico, ma al posto dei monumenti, abbiamo tende, depositi di container, improbabili campi da calcio, l’assurdo di un circo in un aeroporto dismesso, che già di per sé, si presterebbe ad articolate interpretazioni.

Sono scene dal quotidiano di un’umanità in attesa, esistenze in uno stand by che potrebbe prolungarsi all’infinito, in una terra che non è la propria, in un tempo sospeso: sono le drammatiche rovine della nostra epoca.

“Da come gestiamo la questione migratoria dipende ampia parte del destino dell’umanità tutta. Non capirlo è da stolti, ignorarlo è criminale”, scrive Ivo Quaranta, antropologo dell’Università di Bologna

Della stessa serie le video istallazioni Incoming e Grid (Moria) del 2017. A completare la serie video è Quick (2010), che ripercorre le tappe della pratica artistica di Mosse.

Nei progetti più recenti, la matrice è di tipo ecologista. Ultra ci trasporta nelle foreste pluviali dell’Amazzonia e in questo caso, con l’impiego di obiettivi macro e micro, si passa dagli spazi estesi al particolare, dai conflitti umani a quelli che avvengono nella penombra umida del sottobosco.

Esposizioni multiple e illuminazione ad Ultravioletti alterano lo spettro cromatico e svelano immagini spettacolari di organismi vegetali ed animali, con colori brillanti, argentei, cangianti, metallici.

Le piante carnivore, i muschi, le orchidee, diventano fluorescenti e luccicanti come rock star e di nuovo, sotto i riflettori, ritroviamo dinamiche di lotta per la sopravvivenza, strategie per apparire altro, confondere e non soccombere ai fragili equilibri naturali e allo sfruttamento dell’ambiente in termini di deforestazione, incendi, allevamenti intensivi e piantagioni, l’impronta umana nell’antropocene.

Tristes Tropiques, la serie a cui Mosse sta lavorando attualmente nella foresta brasiliana, ha come eloquente sottotitolo Multispectral orthographic photographs of sites of environmental damage e vede l’impiego di droni e pellicole multispettrali di tecnologia satellitare per documentare la distruzione di siti naturali, veri e propri delitti ambientali.

L’Istituto Nazionale brasiliano di Ricerche Spaziali (INPE) ha registrato un aumento dell’85% della deforestazione in Amazzonia dal 2018 al 2019 e dalla metà del 2020 già del 34% rispetto ai livelli dell’anno precedente. Le autorità governative di Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela spesso attribuiscono il fenomeno all’iniziativa di individui e piccoli gruppi motivati dal proprio sostentamento.

Approfondite ricerche da parte degli ecologisti hanno dimostrato invece che il degrado ambientale è più spesso riconducibile ad attività ben organizzate svolte da vari attori, legali e illegali, di diversi ordini di grandezza.

Basandosi su questi dati, l’Istituto di Ricerca brasiliano Igarapé ha avviato un progetto pluriennale per la mappatura della criminalità ambientale.

Commenta Stahel:

“Un’impresa estremamente incisiva, proprio come l’insolita potenza visiva delle opere di Mosse. Per ottenere qualcosa a questo mondo, entrambi questi aspetti sono necessari e probabilmente serve molto di più”.

DISPLACED conferma ancora una volta come i progetti curatoriali presentati al MAST siano scelte ponderate e strettamente legate all’attualità, con una visione che tentando di anticipare scenari futuri, insegue possibili soluzioni, non ultima quella di renderci consapevoli:

“Mosse subisce il fascino dell’investigazione scientifica – prosegue Stahel – è attratto dall’analisi visiva della scena del crimine, dei fatti. Per realizzare le sue serie ricorre a nuovi strumenti e persegue il principio di responsabilità che lo porta a dover valutare con estrema attenzione il soggetto, il conflitto, la situazione e riflettere sulla propria produzione.

Il risultato delle sue indagini sono immagini di grande effetto, mai spettacolarizzate o accusatorie.

Con otto miliardi di persone che affollano il nostro pianeta e le sfide, i problemi, i conflitti e le guerre di comunicazione che lo affliggono sempre più, forse non possiamo permetterci la comoda superiorità morale, la sicurezza e in alcune non rare occasioni, la condiscendenza”.

Info

  •  Richard Mosse con DISPLACED.
  • MIGRATION CONFLIT CLIMATE CHANGE
  • Il catalogo edito dalla Fondazione MAST distribuito da Corraini, è corredato da tutte le immagini della mostra e accompagnato da saggi critici del curatore Urs Stahel, Michael J. Kavanagh, Christian Viveros-Fauné e Ivo Quaranta
  • 7 Maggio 2021 – 19 Settembre 2021
  • Fondazione MAST
  • Via Speranza, 42 – Bologna
  • https://www.mast.org
  • Ingresso gratuito solo su prenotazione da martedì a domenica – 10.00 20.00
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Vive a Bologna, dove lavora come logopedista al Servizio di Neuropsichiatria Infantile occupandosi prevalentemente di disturbi della comunicazione, del linguaggio e dell'apprendimento, è appassionata da sempre di Arte, in qualunque forma si presenti. Da alcuni anni ha iniziato un percorso nel campo della fotografia

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