Ti faccio nero. Passato, presente e futuro di un’opera. Intervista a Stefano Scheda

immagine per Stefano Scheda
Ti faccio nero_ph. di Nedo Zanolini

“Non è spuntato ancora un Omero per cantare le imprese colossali e desolate dei migratori che traversano il mondo a piedi e salgono sulle onde ammucchiati in zattere. Non si è affacciato un poeta cieco e perciò visionario a raccontare il mare spalancato, la deriva e il naufragio. Non c’è un Omero e neanche lo straccio di un nocchiero, di un Miseno, nella ciurma di Ulissi senza governo, tra Eolo re dei venti e Posidone signore delle terre emerse.”
Erri De Luca

Le vicende dei migranti e la tragedia di chi fugge da condizioni di vita insostenibili, sono presenti ogni giorno sulle pagine dell’informazione e di frequente al centro dell’impegno artistico, che si fa testimonianza, invita a letture profonde, muove il corpo e gli strumenti di chi attraverso l’arte lascia una traccia evidente e difficile da ignorare, diviene la voce di quell’Omero citato da Erri De Luca.

Su questi temi, da tempo, si esprime Stefano Scheda, artista, performer, docente all’Accademia di Belle Arti di Bologna, l’istituzione che, nella notte bianca di Art City, grazie al Direttore Enrico Fornaroli, ha ospitato la sua più recente azione artistica, Ti faccio nero, in collaborazione con i suoi allievi del Corso Decorazione Arte Ambiente – Strategia dell’Invenzione e con Enrico Aceti, Francesco Benedetti, Marcello Morresi, Serena Piccinini, Farid Rahimi, Mona Lisa Tina.

Lo incontriamo mentre ne sta preparando il seguito, in vista di Marradi Campana Infesta, il festival di cui è ideatore, giunto alla sesta edizione.

Chiediamo: come si colloca questo lavoro, nella serie dei tuoi precedenti? Esiste un filo conduttore che connota la tua poetica?

Tendo a tornare costantemente sul confine tra vita e morte, analizzo di continuo quella linea di demarcazione. E’ un’ossessione che mi accompagna fin dall’infanzia, il mio punto non risolto, che cerca una catarsi. Nella coazione a ripetere c’è il tentativo di esorcizzare la paura rappresentandola, non in modo diretto, apertamente dichiarato, ma tradotta, traslata in una dimensione diversa.

Ne sono un esempio le opere realizzate nel 2015 in occasione della mostra presentata al Museo Civico di Rimini, per la quale avevo stampato su teli da mare i corpi dei migranti stessi, ambulanti delle nostre spiagge (altro esempio di chi si trova spesso tra la vita e la morte, dentro e fuori dalla legge) e collocato lungo il corridoio di accesso alla sala, un camminamento fatto con i fogli dei quotidiani che via via uscivano, riportando notizie relative all’immigrazione e alla fine della mostra si erano stratificati al punto da creare un muro di carta che saliva ogni giorno.

Questi contenuti mi definiscono come artista e come uomo, cerco, un po’ come tutti, di mantenere un equilibrio.

Il moscone di salvataggio, protagonista di Ti faccio nero, era già apparso in una tua foto del 2010 della serie Made in Italy, ma allora serviva a portare in salvo la natura, rappresentata da un albero. Nel corso del tempo, il progetto ti ha seguito, ha preso altre forme pur mantenendo un carattere sociale e politico. Per l’edizione 2019 della White Night di Artefiera, l’imbarcazione è approdata sul palco nel Teatro dell’Accademia di Belle Arti, al centro di una performance che ha coinvolto oltre duecento persone, pazientemente in fila nella notte, per un incontro diretto con l’oggetto/soggetto in questione. Come si è arrivati dall’Adriatico a Via Belle Arti?

Quando ero bambino il moscone mi metteva sempre tanta allegria, per il colore, per la gioia della vacanza, era simbolo di protezione e solo in circostanze eccezionali ci ricordava il pericolo rappresentato dal mare.

Adesso, per me, incarna la consuetudine di una tragedia talmente inquietante da rendermi quasi impossibile il bagnarmi nel nostro mare. Il profondo disagio mi ha creato un cortocircuito e l’ho immaginato vestito a lutto, galleggiare sul “cimitero liquido”, una definizione di Mediterraneo purtroppo molto calzante.

Forse un museo avrebbe dato una cornice più distaccata, ma lo spazio scenico, adatto anche per accogliere un importante flusso di persone, mi ha riportato a una condizione più teatrale, appunto. Una lunga corda distesa a terra segnava il percorso, che a partire dagli spazi più storici dell’Accademia, in quella notte frequentatissimi e chiassosi, giungeva fino al palcoscenico che ospitava l’oggetto ancora non palesato.

L’azione è stata suddivisa in tappe ben distinte, un viaggio dei partecipanti a partire dal cortile esterno sotto la pioggia, poi nella penombra di una stanza, dove erano invitati, da una voce che ripeteva insistentemente in tono meccanico e monocorde, rendendo ancor più pesante l’atmosfera, a riporre in un sacco borse, giacche e qualsiasi effetto personale, a spegnere i cellulari, a proseguire in silenzio in fila indiana, ad attraversare infine i bagni, spogli freddi e inondati di luce accecante, fino a giungere ad una tenda/barriera.

Il rito e il tempo trascorso nel buio e nell’isolamento non permettevano anticipazioni su ciò che stava per accadere, anzi accrescevano l’intensità partecipativa. Ogni condizione era spersonalizzante in modo diverso, contribuiva a stressare e ad acuire la sensazione di fragilità, fino all’entrata, dopo aver varcato la soglia della tenda, nell’ampia platea del teatro spogliata dalle sedute, dalla quale si poteva finalmente scorgere la destinazione assieme alle ombre di tutti gli altri in fila ed evocare, come scrive Vincenzo Cardarelli,

“I ricordi, queste ombre troppo lunghe nel nostro breve corpo”.

In sala si avvertiva un senso di calore e condivisione: procedere con uno scopo comune attenuava la tensione, anzi si era un po’ tutti attratti e affascinati da ciò che avveniva sul palco, ora a portata di sguardo.

In evidente contrasto con il qui e ora della stanza precedente che ancorava alla terra, teneva in allarme, procurava inquietudine; nella platea sgombra immersa nella sacralità dello Stabat Mater di Antonio Vivaldi, ho visto le persone in fila molto immedesimate, grazie anche al potere della musica che affinava la percezione dell’appartenere a quel momento.

Infine, ognuno saliva sul palco e dipingeva una piccola porzione del moscone con la vernice nera, lasciando un segno e al tempo stesso una parte di sè non espressa a parole, un atto che copriva e trasformava l’oggetto, simbolo del lutto di cui ho voluto rendere tutti partecipi. Una volta compiuta l’azione, il pennello e la vernice passavano a chi attendeva il proprio turno.

Ne è risultata un’imbarcazione completamente nera, tanto da sparire, confusa con il fondale e le quinte, ugualmente neri. Ognuno nel percorso e nel gesto ha vissuto la propria emozione e la performance come presa di coscienza. Ogni piccolo atto, apparentemente inoffensivo, una parola o un’espressione anche d’indifferenza, determinati il più delle volte da insoddisfazioni, messi in scena con una pennellata, possono trasformare la realtà, attivando la propria responsabilità individuale o declinandola in diverse interpretazioni, quale opera aperta.

All’uscita si recuperavano gli effetti personali e si riceveva una sorta di passaporto, una busta lasciapassare, contenente una cartolina con l’immagine del moscone nero in mare e una splendida poesia di Antonella Anedda, che ho voluto donare ai partecipanti: eccola

“Ci sono tracce? O sento solo io i perduti, gli stranieri, i prigionieri tempestati di spine”.

L’apertura della busta era posticipata a un orario stabilito uguale per tutti, per ritrovarsi nella collettività di un pensiero.

Una suggestione, raccolta all’uscita, ci è sembrata perfetta per definire l’opera, “un senso molto profondo di prendersi cura”.
Arriviamo ora al futuro, relativamente prossimo, di questo lavoro, che presto vivrà un nuovo viaggio, ancora più straniante.

Sì, il moscone nero andrà in montagna a Marradi e qui, nella serata del 6 Luglio, tornerà al colore originario, vedendo ripristinata la funzione salvifica di vita e rinascita e riprenderà così la via del mare.

Col nuovo titolo di Ti faccio rosso, la performance è inserita nel percorso didattico ed espositivo di Marradi Campana Infesta, manifestazione che quest’anno avrà per tema inDifferenza e si svolgerà il 5 e il 6 luglio nei luoghi campaniani, in collaborazione con Mona Lisa Tina, Serena Piccinini, Francesco Benedetti e Farid Rahimi e i miei allievi dell’Accademia.

Per informazioni sul Festival Marradi Campana Infesta: www.marradicampanainfesta.it

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Vive a Bologna, dove lavora come logopedista al Servizio di Neuropsichiatria Infantile occupandosi prevalentemente di disturbi della comunicazione, del linguaggio e dell'apprendimento, è appassionata da sempre di Arte, in qualunque forma si presenti. Da alcuni anni ha iniziato un percorso nel campo della fotografia

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