Io è un altro / Essere l’altro alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma

immagine per Io è un altro / Essere l’altro
Jane Alexander, Triumph over capitalism Lustgarten, 1995, Courtesy Sindika Dokolo Foundation, Bruxelles

“Io sono molti altri, come ognuno di noi è molti altri” è la premessa chiarissima di Simon Njami (Losanna 1962, vive a Parigi) nel presentare la mostra I is an Other / Be the Other (Io è un altro / Essere l’altro) nel salone centrale della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea (fino al 24 giugno), primo appuntamento di quella che è lo stesso curatore a definire la “Njami season a Roma”.

A seguire, infatti, insieme a Elena Motisi, sarà protagonista della curatela di African Metropolis: una città immaginaria al MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo che inaugura nei giorni del forum economico e culturale ItaliaAfrica (fine giugno 2018).

L’urgenza nel proporre riflessioni che stimolino considerazioni costruttive, scevre dalle banalizzazioni e dalla stupidità dello stereotipo c’è eccome, tanto più nel periodo storico che stiamo vivendo in cui la politica razzista di molti paesi (incluso il nostro, europei e non) guardano all’altro come l’opposto – noi/gli altri – alla ricerca di capri espiatori.

“Significa che quando guardo qualcuno non devo ricorrere alle categorie”.

Così spiega lo scrittore e critico svizzero (ha una laurea in filosofia) co-fondatore di Revue Noir; è stato anche curatore di Africa Remix, direttore artistico dei Rencontres de la Photographie de Bamako, Dak’Art e nel 2007  curatore di Ckeck List (insieme a Fernando Alvim), primo padiglione africano alla 52. Biennale di Venezia con opere provenienti dalla Sindika Dokolo African Collection of Contemporary Art di Luanda in Angola (oggi ha sede a Bruxelles) da cui proviene la maggior parte delle opere della collettiva I is an Other / Be the Other.

“Mi sento libero di dire che Donald Trump è stupido, perché riguarda Donald Trump non gli americani”.

Così continua Njami durante la conferenza stampa, tirando in ballo anche Berlusconi “who never dies” (che non muore mai). Uno scenario politico delirante che varca i confini nazionali sobillando e puntando alla diversità, piuttosto che agli scambi, alle contaminazioni, alle collaborazioni, ad un percorso di crescita condivisa e alla valorizzazione delle diversità culturali, essenziali per la definizione di nuovi immaginari.

“Quando insegnavo in California i miei colleghi mi dicevano ‘sei francese’; in Francia, dove vivo, sono lo svizzero perché sono nato lì, quando vado in Camerun da dove proviene la mia famiglia mi dicono ‘tu, l’Europeo’. Probabilmente sono tutte e tre le cose. Penso che, in maniera diversa, ognuno di noi lo sia.”

Tornando al titolo della mostra “suggestivo e suggerente”, come lo definisce la direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea Cristiana Collu, nasce da una citazione di Arthur Rimbaud, poeta veggente, che esce dal soggettivismo ricorrendo alla terza persona “Je est” al posto di “Je suis” – un io che entra nelle dinamiche della formulazione del pensiero come spettatore esterno – per spostarsi su un piano più psicoanalitico con la rielaborazione dell’inconscio di Jacques Lacan.

immagine per Io è un altro / Essere l’altro
Simon Njami alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma (ph Manuela De Leonardis)

Continua Njami:

“Viviamo in un’epoca in cui le menti sono pigre. Abbiamo bisogno di ripensare alla complessità dell’umanità.”

Un altro monito arriva da Hegel:

“Il pericolo non viene da quello che non conosciamo, ma da quello che crediamo sia vero e invece non lo è.”

Il punto, quindi, è cercare di confrontarsi con un’Africa con cui l’intera umanità deve fare i conti:

“Ho imparato che, a partire da Lucy, non c’è nessuno che non abbia a che fare con l’Africa.”

Le ossa fossili dell’australopiteco femmina AL 288-1 (il reperto Australopithecus afarensis è noto soprattutto come Lucy) furono scoperte il 23 settembre 1974 dal paleoantropologo statunitense Donald Johanson vicino al villaggio di Hadar in Etiopia. Il piccolo scheletro attesta la capacità di camminare in posizione eretta, su due zampe, in un’epoca che risale a 3,2 milioni di anni fa. Si tratta dello scheletro più completo di un antenato umano antico. Le fu dato il nome di Lucy (in Etiopia è anche conosciuta come Dinqinesh, che in lingua amarica significa “sei meravigliosa”) come omaggio ad una delle canzoni più ascoltate durante la spedizione, Lucy in the sky with diamonds dei Beatles.

Il concetto su cui insiste I is an Other / Be the Other è proprio questo: il modo di affrontare e rielaborare radici comuni.

In particolare è la maschera il fil rouge dei lavori di 17 artisti internazionali che non sono necessariamente africani, ma certamente hanno dei fortissimi legami con il continente Africa.  Il tema della maschera come prodotto di “arte classica africana”, ma anche come metafora per esplorare le identità, la percezione di sé e dell’altro.

“Amo la canzone di quel gran filosofo (non è necessario avere il PhD per esserlo) che è Sting, il cantante britannico, che dice I’m not a man of too many faces / The mask I wear is one.”,

La canzone è Shape of my heart: “Non sono un uomo con troppe facce / La maschera che indosso è una.”

In mostra sono esposte anche alcune antiche maschere tribali (Ngon, Kifwebe, Mbangu…), insieme ad un crocifisso di legno e metallo proveniente dal Congo, ulteriore citazione del ruolo decisivo (e scioccante) determinato dalla loro scoperta a Parigi da parte di Picasso e di altri protagonisti delle avanguardie storiche, punto di partenza per l’elaborazione di nuove modalità espressive.

Nelle diversità ogni opera è, in qualche modo, collegata all’altra suggerendo una visione caleidoscopica in cui, ad esempio, i Soundsuit di Nick Cave (forme scultoree indossabili che sono allo steso tempo sculture, strumenti musicali, costumi) sprigionano la stessa energia degli uomini con le catene o le fruste fotografati da Phyllis Galembo nei paesi caraibici o sul suolo africano.

Del resto al pantheon Yoruba è dedicato il disegno su carta del cubano Wilfredo Lam, attento interprete della colonizzazione africana della sua cultura d’appartenenza, soprattutto in ambito culturale e religioso (Santèria).

Enigma, ambiguità, doppi sensi avvolgono il corpo nell’opera della franco-marocchina Majida Khattari (performance Houri), così come nella scultura Venus Nigra di Beya Gille Gacha che riveste il tronco femminile di perline nere, sinonimo di preziosità o in Crocodile lover del collettivo Kutala Chopeto creato dalle artiste Teresa Fimino e Helena Uambembe (ha sede in Sudafrica a Johannesburg e Pretoria) e nel recentissimo video Atlas Fractured (2017) di Theo Eshetu (nato a Londra, ma cresciuto a Addis Abeba, Dakar, Belgrado, prima di spostarsi a Roma), spostandosi in una dimensione più esplicitamente politica nel lavoro di Jane Alexander (tra le sue fotografie esposte ci sono Gannet, 1986 e Triumph over capitalism: Lustgarten, 1995), riconosciuta come tra i più importanti artisti della Resistenza.

“Questa alterità è di fatto mitologica, come la stessa arte, che non è mai ciò che sembra essere.”

immagine per Io è un altro / Essere l’altro
Wifredo Lam, Untitled (Yoruba Pantheon), 1946, Courtesy Sindika Dokolo Foundation, Bruxelles

Info:

  • I is an Other / Be the Other (Io è un altro / Essere l’altro)
  • Igshaan Adams, Jane Alexander, Bili Bidjocka, Owusu-Ankomah, Nick Cave, Theo Eshetu, Phyllis Galembo, Beya Gille Gacha, Paulo Kapela, Majida Khattari, Kutala Chopeo, Mehdi-Georges Lahlou, Wifredo Lam, Ato Malinda, Oewusu-Ankomah, Maurice Pefura, Patrick Joël Tatcheda Yonkeu
  • a cura di Simon Njami
  • 20 marzo 2018 – 24 giugno 2018
  • Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
  • viale delle Belle Arti, 131 Roma
  • orari di apertura dal martedì alla domenica: 8.30 – 19.30 (chiuso lunedì); biglietti biglietto intero: € 10,00 biglietto ridotto: € 5,00
  • www.lagallerianazionale.com
  • tel +39 06 3229 8221
  • social Facebook, Twitter, Instagram #LaGalleriaNazionale #BeTheOther
  • (catalogo Electa)
+ ARTICOLI

Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.