Joachim Schmid. Other People’s Photographs. L’intervista

-Joachim-Schmid-a-Savignano-sul-Rubicone-foto-di-Manuela-De-Leonardi

Non manca d’ironia Joachim Schmid (Balingen, Germania 1955, vive a Berlino), “fotografo che non fotografa”. Il suo percorso formativo inizia con gli studi in Visual Communication at Fachhochschule für Gestaltung Schwäbisch Gmünd and Hochschule der Künste di Berlino (1976-1981), seguiti da una lunga esperienza di teorico e critico della fotografia attraverso la pubblicazione della rivista Fotokritk, di cui è fondatore negli anni ‘80.

In Italia il suo lavoro è stato esposto più volte: nel settembre 2013 la personale Archiv / Bilder von der Strasse a Villa Torlonia, a Savignano sul Rubicone faceva parte del SI Fest #22. Allora è stata realizzata quest’intervista dal vivo, trascritta e pubblicata per la prima volta in occasione del nuovo appuntamento nell’ambito della XIV edizione di FotoGrafia – Festival Internazionale di Roma http://www.fotografiafestival.it/,dedicato al tema del presente. Al MACRO il fotografo tedesco presenta Other People’s Photographs, a cura di Olga Smith (fino al 17 gennaio 2016): una selezione delle centinaia di scatti scaricati dal sito Flickr e ordinati in una sorta di archivio del quotidiano per categorie che vanno da “cose” a “volti nei buchi”, “scollature”… tòpos di una “moderna fotografia popolare” che aspira al sublime traducendo il kitsch.

Alla fine degli anni ’70 quando studiavi fotografia, quell’esperienza più che darti delle risposte ha messo in moto molte altre domande. Perciò hai smesso di fotografare e hai affrontato l’argomento da critico. Cosa ti aspettavi, allora, dal linguaggio fotografico e quali sono le domande che ti sei posto?

“Questa è più di una domanda! Però, come prima cosa, devo precisare che non studiavo fotografia. Frequentavo il dipartimento di graphic design alla Scuola d’Arte di Berlino con l’obiettivo di diventare un grafico, ma realizzai abbastanza presto che non era esattamente quello che avrei voluto fare. Ero interessato alla fotografia, ma a quei tempi nella mia scuola non c’era alcun dipartimento di fotografia. Fondamentalmente sono autodidatta. Come qualunque persona che abbia in mano una macchina fotografica ho cominciato a sperimentare e, allo stesso tempo, a leggere testi sulla fotografia. Uno dei primi libri che ha stimolato in me una serie di domande è stato il saggio Sulla fotografia di Susan Sontag. Leggendolo ho iniziato a chiedermi quale fosse il ruolo della fotografia nella società, scoprendo tutto il mondo della fotografia: l’importanza della stampa, i vari dettagli e anche la fotografia come forma d’arte.”

All’attività artistica ti sei dedicato solo successivamente, guardando alla fotografia con un approccio concettuale. In che modo si colloca il tuo interesse per l’accumulo nel tuo lavoro di “fotografo che non fotografa”?

“Il mio modo di fare arte viene dal pensare alla fotografia e guardare alle immagini fotografiche senza usare la macchina fotografica. Anche se ci sono volte in cui l’ho usata. Andando avanti sono arrivato a capire che le domande più interessanti sulla fotografia arrivano da fonti come i quotidiani. Qual è l’uso delle fotografie nei quotidiani? Delle istantanee? Cosa si vede nelle cartoline? Tutto questo è superinteressante! In questo senso mi sono interessato all’accumulo, con l’idea di costruire un grande data base di fotografie, iniziando a collezionare tutte quelle immagini. Non si trattava di possedere immagini preziose ma, come dicevo, di costruire un vasto archivio. Lentamente la scrittura è diventata importante quanto la pratica visuale. Realizzai che le immagini erano potenti già così come apparivano, senza la pretesa di essere altro.”

Archiv (1986-1999) e Bilder Von der Strasse (1982-2012) sono due lavori storici che hai portato avanti meticolosamente nel corso di decenni. Come nascono questi due progetti, quali sono i punti in comune e quando hai capito, dopo anni di work in progress che erano conclusi?

“Capii che occorrevano tanti esempi di questi lavori per dimostrare l’idea, ma era anche vero che teoricamente le possibilità erano infinite. Non volevo, poi, trascorrere tutto il resto della mia vita a fare qualcosa di ripetitivo. Per Bilder Von der Strasse (foto sulla strada), sono andato avanti finché non mi sono più stupito. Nel momento in cui il lavoro era diventato ripetitivo, mi sono reso conto che era ora di fermarmi. Andare in giro per la città senza guardarmi intorno era un comportamento sbagliato. Il cambiamento, poi, era una logica conseguenza di quello avvenuto con l’arrivo del digitale. In questa fase la gente stampa solo le foto che gli piacciono, per cui è difficile che finiscano nella spazzatura. Il progetto ha avuto una fine naturale. Pragmaticamente ho pensato che si sarebbe dovuto concludere dopo trent’anni o con mille foto. Si è concluso proprio con mille foto, di cui le ultime trovate proprio nel Sud dell’Italia.
Per quanto riguarda Archiv, il progetto è finito quando ho realizzato che non sarebbe stato possibile risolvere i problemi che poneva. Il primo è che trovando queste foto nei mercatini delle pulci, dove normalmente si trovano foto di persone morte, per cui foto dagli anni ’20 agli anni ’60, poi basta. Così si sta sempre mezzo secolo nel passato, mentre io volevo lavorare nel mio tempo. L’altro problema era che mi sentivo frustrato, perché anche se si accumulano tante immagini – centomila – in confronto ad internet non sono molte. Per questo ho iniziato a lavorare ad un progetto in cui il mio lavoro sarebbe stato un frammento, non un lavoro completo. Ora la situazione è cambiata drasticamente ed io sono tornato a pormi le stesse domande, ma in una maniera diversa. La gente, oggi, mette le proprie foto online per cui ho accesso a milioni di immagini. Ogni giorno si moltiplicano di milioni in milioni e ci sono anche foto recentissime, per cui ho risolto entrambi i problemi.”

In Archiv, in particolare, c’è anche il tentativo di rimettere ordine attraverso le categorie?

“Sì, questa è una delle idee di questo progetto, usando il metodo scientifico e la sua applicazione. Ad esempio adattando per la fotografia quello storico-naturale. Questo approccio è molto ironico, perché la fotografia non può essere messa nelle categorie così facilmente come la flora e la fauna. I criteri sono diversi. Una foto può appartenere a più categorie. Però questo, oltre ad aiutare a fare ordine, può anche creare confusione.”

Dalla fine degli anni ‘90 – come dicevi – hai attinto anche al mondo virtuale di internet, alla fotografia digitale e ai telefoni cellulari. Hai accennato alle potenzialità, ma quali sono i limiti di questi nuovi strumenti di comunicazione?

“Questo è molto speculativo, siamo in una fase collettiva illimitata. Così, in questo momento non saprei affermare quali siano i limiti. Hai, forse, tu un’idea?”

Probabilmente l’overdose di immagini prodotte…

“E’ chiarissimo che se parliamo di fotografia popolare dobbiamo riconsiderare tutto quello che abbiamo detto precedentemente a proposito della fotografia. Fino a dieci anni fa, ad esempio, le foto di famiglia erano qualcosa di legato ad un concetto di memoria, mentre quelle che si fanno oggi – in grande quantità – non lo sono affatto. Non servono più per un ruolo futuro, ma accompagnano la vita quotidiana. L’azione del fotografare è come il respiro, non ci si fa più caso.”

Sembra che i tuoi progetti abbiano bisogno di lunghi tempi di sedimentazione…

“Dipende. Alcuni progetti hanno bisogno di molto tempo, altri sono veloci. Sono le immagini stesse a porre delle domande. Io non ci penso molto, ma passo parecchio tempo a guardarle. E se le domande sono ancora lì, significa che bisogna che continui a guardare le immagini. Qualche volta c’è qualcosa che non va, ma non saprei dire se sono le foto che non funzionano in sé, oppure non sono adatte a me. Altre, invece, il feeling è immediato. Ad esempio, lo scorso anno ero in Portogallo per una lecture e, in un momento libero, sono andato in un negozio di libri usati dove ho trovato un mucchio di riviste degli anni ’50 dedicate agli attori di Hollywood. Queste riviste con le note scritte a mano, in cui una ragazza portoghese ha colorato di rosso le labbra di tutte le attrici delle foto in bianco e nero, per me rappresentano una via di fuga, considerando che ci troviamo in Portogallo, alla fine del mondo, in piena dittatura. Altro che Baldessari!”

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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