Matisse, Arabesque

“Il mio disegno al tratto è la traduzione diretta e più pura della mia emozione. E’ la semplificazione del mezzo a permetterlo”, affermava Henri Matisse (Cateau-Cambrésis 1869 – Nizza 1954), che aveva basato il suo linguaggio su un’interpretazione della superficie pittorica che sintetizza morbidezza sinuosa della linea, semplificazione della forma e apporto cromatico.

A definire questo approccio che procede sul doppio binario del pensiero e dell’emozione è determinante, per il maestro francese, l’incontro con l’oriente: “La révélation mʹest venue dʹOrient”, come scrisse nel 1947 al critico Gaston Diehl.

Non solo un oriente sublimato dalla fascinazione per l’esotico, intercettato attraverso oggetti artistici e manufatti provenienti da un’area geografica che abbraccia il Maghreb, l’Africa subsahariana, il Medioriente (fino ad arrivare all’estremo Oriente con una conclamata affezione all’estetica giapponese), ma – e soprattutto – una matrice esotica nutrita, quella di Matisse, dalla sua conoscenza diretta di numerosi paesi “orientali” che visitò a partire dal viaggio in Algeria del 1906. Agli anni Trenta, invece, risalgono i soggiorni in Polinesia.

Sappiamo, inoltre, che egli fu appassionato visitatore di importanti mostre come quelle dedicate all’arte islamica nel 1893, 1894 e 1903 al Musée des Arts Decoratifs di Parigi; dell’Esposizione mondiale del 1900 e l’Esposizione di arte maomettana a Monaco di Baviera nel 1910, di grande impatto sulla generazione di artisti che include Kandinsky, Le Corbusier, oltre che lo stesso Matisse.

Questo legame privilegiato è focalizzato dalla mostra Matisse Arabesque, curata da Ester Coen, alle Scuderie del Quirinale di Roma (fino al 21 giugno), che anticipa di poco un’altra grande rassegna dedicata al pittore francese: The Oasis of Matisse dello Stedelijk Museum di Amsterdam (fino al 16 agosto).

“Nei motivi riccamente intricati e labirintici di civiltà antiche e lontane, Matisse coglie il senso di uno spazio diverso:” – scrive Ester Coen nel catalogo della mostra romana – “uno spazio più vasto, un vero spazio plastico’ per ‘uscire dalla pittura intimistica’”.

Nelle sale espositive delle Scuderie del Quirinale le opere di Matisse, sia i dipinti ad olio – tra cui Angolo di tavola (violette) del 1903 ca., Zorah sulla terrazza (1912-13), Pesci Rossi (1912), Il paravento moresco (1921), Due modelle in riposo (1928) Interno con fonografo (1934), Nudo in poltrona, pianta verde (1937), che i disegni a grafite o china (tra cui i numerosi studi di nudo e di odalische, oltre che quelli di foglie e fiori) dialogano con oggetti disparati: tessuti, tappeti, ceramiche, maschere africane provenienti da musei vicini (MNAO – Museo Nazionale d’Arte Orientale Giuseppe Tucci e Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico Luigi Pigorini di Roma), e anche lontani (Musée d’ethnographie du Trocadéro, di Parigi, Guggenheim di New York, Hermitage di San Pietroburgo, The Israel Museum di Gerusalemme, Victoria & Albert Museum di Londra ed altri ancora).

Bellissima anche la mashrabiya marocchina di cedro che diventa la metafora per riflettere sul tema dello sguardo – di qua e di là della grata – tra una cultura e l’altra.

Ma, in base a quanto ebbe a dire lo stesso pittore (in un’intervista del ’52), tutto ebbe inizio da una scultura africana: “Andavo spesso da Gertrude Stein in rue de Fleurus, e nel tragitto passavo ogni volta davanti a un negozietto d’antichità. Un giorno notai in vetrina una piccola testa africana, scolpita in legno, che mi ricordò le gigantesche teste di porfido rosso delle collezioni egizie al Louvre. Sentivo che i metodi di scrittura delle forme erano gli stessi nelle due civiltà, per quanto estranee l’una all’altra per altri aspetti. Acquistata dunque per pochi franchi quella testina, l’ho portata a casa di Gertrude Stein. Là ho trovato Picasso che ne fu molto impressionato. Ne discutemmo a lungo: fu l’inizio dell’interesse di noi tutti per l’arte africana – interesse testimoniato, da chi poco e da chi molto, nei nostri quadri.”

Un’Africa e un Oriente interpretati in una chiave personale, sono rintracciabili anche nei costumi che Matisse disegnò su richiesta di Diaghilev per il balletto Le Chant du Rossingol (musica di Igor Stravinsky; coreografia di Leonide Massine), di cui firmò anche la scenografia e che andò in scena il 2 febbraio 1920 all’Opéra Garnier di Parigi. Il mandarino, il cortigiano, il guerriero, la portatrice di lanterna… sono personaggi di questo complesso spettacolo nei cui abiti ritroviamo la sintesi stessa della poetica dall’artista: l’essenzialità delle linee e la ricchezza degli elementi decorativi.

(…) è per liberare la grazia, la naturalezza, che studio tanto prima di fare un disegno a penna. Non mi faccio mai violenza; al contrario: io sono il ballerino o l’equilibrista che comincia la sua giornata con molte ore di vari esercizi di flessione, in modo che tutte le parti del corpo gli obbediscano quando, davanti al suo pubblico, vuole tradurre le sue emozioni in una successione di momenti di danza, lenti o vivaci, o in una piroetta elegante.”

Info mostra

  • Matisse Arabesque
  • Scuderie del Quirinale, Roma
  • dal 4 marzo al 21 giugno 2015
  • a cura di Curata da Ester Coen
  • Comitato scientifico: John Elderfield, Remi Labrusse e Olivier Berggruen
  • Organizzazione: Azienda Speciale Palaexpo in coproduzione con MondoMostre
  • catalogo Skira
  • www.scuderiequirinale.it
+ ARTICOLI

Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.