Dancing with Myself. Il corpo come strumento dell’artista

immagine per Dancing with Myself
Kurt Kranz Münderreihen from the Study of faces and hands, 1930-1931

Narciso “danzava” con la propria immagine riflessa sulla superficie increspata dell’acqua – come narra Ovidio – sdegnante nei confronti di qualsiasi amore che non prevedesse quello per sé. L’immortalità di questa figura mitologica, come sappiamo, è legata al fiore giallo in cui fu trasformato, ma anche al disturbo della personalità classificato in ambito psicologico e psichiatrico: quello di Narciso è, comunque, uno dei primi esempi di visualizzazione della percezione di sé, un tema caro agli artisti di tutti i tempi che lo hanno esplorato confrontandosi con tutte le tecniche.

Autoritrarsi per conoscersi, autocelebrarsi (magari in chiave ironica) ma, soprattutto, per delegare alla propria immagine un messaggio simbolico che va oltre l’individualità della personalità per diventare una sorta di autobiografia collettiva, sociale e politica.

In questa prospettiva si collocano le opere (soprattutto fotografiche) della collettiva Dancing with Myself (a cura di Martin Bethenod e Florian Ebner) a Punta della Dogana, Venezia.

Sostiene il curatore Bethenod (è anche direttore generale delegato della Collection Pinault – Paris e del suo museo, la Bourse de Commerce, oltre che direttore di Palazzo Grassi – Punta della Dogana):

“L’autoritratto è un genere molto definito, mentre la rappresentazione di sé non obbedisce ad alcun genere e può essere trasversale a tutte le pratiche artistiche. Non si tratta tanto di un tema, quanto di un modo di procedere, di un metodo. L’immagine in cui il corpo dell’artista non è tanto il soggetto dell’opera quanto lo strumento con cui può affrontare un certo numero di tematiche e di posizioni che spesso riguardano sfide politiche o toccano questioni sociali, razziali, di identità, genere, sessualità…”

La mostra – che spazia attraverso 140 opere di 32 contemporanei, prevalentemente dagli anni Settanta ad oggi – è nata dalla collaborazione tra la Pinault Collection e il Museum Folkwang di Essen, che nel corso del 2016 ne presentò una prima edizione.

Una parte del “processo dialettico” è basato proprio sul dialogo tra le due collezioni e queste, come ci dice il curatore:

“possono somigliare a discorsi allo specchio: un pezzo della Pinault Collection di fronte a uno molto simile della collezione di Essen, realizzato per esempio con le opere di Claude Cahun. Oppure possono esistere delle complementarietà molto forti, come nel caso di Cindy Sherman: la Collezione Pinault è molto ricca di foto degli anni Settanta, e di altre dagli anni Novanta ai nostri giorni, mentre il Museum Folkwang possiede alcuni pezzi importanti della serie Untitled Film Stills. Riunendole, si riesce a fornire un panorama molto ampio del lavoro di Sherman. Infine, in altri casi, si trattava di proporre dialoghi inediti fra artisti che forse non si sarebbero incrociati perché appartengono a generazioni o contesti culturali diversi. È il caso di LaToya Ruby Frazier e Nan Goldin, alle quali le mostre di Essen e Venezia propongono un incontro. Ed è anche il caso dei lavori del giovane brasiliano Paulo Nazareth in dialogo con il grande fotografo americano Lee Friedlander.”

Gilbert & George sono certamente gli artisti che sintetizzano il rapporto tra sé e l’altro in una chiave di “living sculpture” che ricorrendo al linguaggio fotografico è anche il riflesso di un dialogo quotidiano personale e professionale con cui il duo ha proiettato i propri pensieri fuori di sé.  “Era molto meglio avere una scultura vivente, umana, che parlasse per noi.” – afferma Gilbert nell’intervista riportata nel catalogo – “Una composizione che potevamo portare con noi ovunque andassimo!”.

Se, poi, nell’autoritratto del 1929 dell’intellettuale francese Claude Cahun (fu amica di André Breton e Meret Oppenheim e militò nella resistenza francese durante l’occupazione tedesca), ritroviamo una certa ambiguità di matrice surrealista che ben si confà allo spirito ribelle che sprigiona il suo sguardo, in altre opere il messaggio contestatario passa attraverso altri dettagli del corpo: soprattutto le mani (Arnulf Rainer, Kurt Kranz, John Coplans e anche LaToya Ruby Frazier in Mom and Mr. Verby’s hands), ma anche la bocca, la lingua, le natiche, le gambe che rimandano ad una frammentazione dell’io che è anche lo specchio della nozione di individuo la cui identità è tutt’altro che fissa e codificata.

Il corpo, insomma, è lo strumento dell’artista – la “materia prima” – che, come afferma Florian Ebner, “non è più alla ricerca di una sola identità rappresentativa o soggettiva, ma della verità del corpo stesso.”

Info mostra

  • 8 aprile-16 dicembre 2018
  • Dancing with Myself
  • (a cura di Martin Bethenod e Florian Ebner)
  • Punta della Dogana / Pinault Collection, Venezia
  • in collaborazione con il Museum Folkwang di Essen
  • Catalogo trilingue (italiano, inglese, francese), co-edizione da Marsilio Editori, Venezia, e Palazzo Grassi – Punta della Dogana, 2018
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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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