Songs of Loss and Songs of Love. Oum Kulthoum and Lee Nan-Young, al Gwangju Museum of Art

RAED YASSIN - Ruins in space - 2014 Courtesy of Kalfayan Galleries (Athens- Thessaloniki)

L’amore e la perdita (dell’amore) sono un leitmotiv delle canzoni di tutti i tempi. Una rincorsa che attraversa l’esistenza di tutti, condivisa e condivisibile. Latitudini e longitudini si annullano, i sentimenti rifuggono dalle scadenze temporali, come ci indicano queste due grandi interpreti del secolo scorso: Oum Kulthoum e Lee Nan-Young.

A loro, per l’esattezza ad un immaginario incontro tra le due cantanti e musiciste, è dedicata la mostra Songs of Loss and Songs of Love. Oum Kulthoum and Lee Nan-Young, curata da Sam Bardaouil e Till Fellrath al Gwangju Museum of Art, Corea del Sud (dal 20 maggio al 13 luglio).

Due dive – entrambe “stelle dell’oriente”- sopravvissute al loro stesso mito straripante. Egiziana la prima, coreana la seconda.

Di Oum Kulthoum, che era nata in un villaggio nel Delta del Nilo probabilmente nel 1904 ed è morta nel 1975, si ricorda – oltre alla voce potente che incantava e commuoveva – il patriottismo, la fierezza e l’immancabile fazzoletto in mano durante i concerti. E’ ancora oggi al top nella classifica degli autori più ascoltati del mondo arabo; alla sua vita si è ispirato anche Sélim Nassib nel romanzo Ti ho amata per la tua voce (1996), incentrato sul rapporto platonico tra la diva e il grande poeta Ahmad Rami che per lei scrisse innumerevoli canzoni.

Non meno famosa Lee Nan-Young (1916-1967) sia come interprete folk della musica coreana prima della Guerra di Corea (Tears of Mokpo è un cult) che per essere la madre di Sue e Aija, che con Mia formavano il celeberrimo trio The Kim Sisters.

Come per la mostra itinerante Tea with Nefertiti (inaugurata al Mathaf di Doha nel 2012), anche in Songs of Loss and Songs of Love Sam Bardaouil e Till Fellrath, ideatori e creatori della piattaforma Art Reoriented attiva tra New York e Monaco, ripropongonola formula vincente in cui arte e storia sconfinano tra reale e immaginario, chiamando in campo gli artisti Adel Abidin, Manal Al Dowayan, Ghada Amer, Ziad Antar, Ali Cherri, Fouad El Khoury, Mounir Fatmi, Pascal Hachem, Joana Hadjithomas and Khalil Joriege, Mohssin Harraki, Mona Hatoum, Mohammed Kazem, Nicene Kossentini, Shirin Neshat, Zineb Sedira, Vahid Sharifian, Khaled Takreti e Raed Yassin.

L’ideale sceneggiatura prevede l’incontro di Oum Kulthoum e Lee Nan-Young a Parigi nel 1967: la diva coreana passa nella capitale francese sulla via del ritorno in patria, dopo aver accompagnato le Kim Sisters a New York per la loro partecipazione alla trasmissione televisiva The Ed Sullivan Show. La stella d’Oriente, invece, si trova a Parigi per il concerto all’Olympia a cui assiste anche la cantante coreana innamorandosi della musica della collega egiziana.

Frammenti del reale creano un cortocircuito che si fa stuzzicante nell’immaginare le due star che s’incontrano nei café parigini, sorseggiando una tazza di tè o di caffè noir, mettendo da parte l’ego per discorrere amabilmente raccontandosi e confrontando le loro storie pubbliche e personali in cui la musica è anche una metafora socio-politica e, con l’occasione, esplorare le dinamiche socio-politiche dell’arte contemporanea.

La mostra traduce visivamente la vena malinconica, la nostalgia che è implicita nel concetto di amore come perdita, ma c’è anche l’aspetto legato alla seduzione, all’ironia e all’umorismo che pure appartengono alle dinamiche del rapporto amoroso. Un territorio che arriva a sfiorare questioni legate all’identità, alla politica, alla condizione della donna.

Sulle linee di questo ipotetico pentagramma troviamo lavori molto diversi tra loro – come del resto lo sono gli artisti stessi, appartenenti a generazioni differenti e provenienti da aree diverse (Nordafrica, Medio Oriente, penisola arabica) – a partire da Save Manhattan 03 (2007) del marocchino Mounir Fatmi che si rifà all’idea catastrofica di perdita nel ricostruire lo skyline di New York pre 11 settembre con casse acustiche, speakers e impianti Hi-Fi.

Mona Hatoum risponde con una visione non meno catastrofica e tutt’altro che romantica, proponendo in un sottofondo di irriverente cinismo il concetto dell’impossibilità dello stare in coppia, attraverso il noto set di tazzine da tè per due T42 (gold) (1999) in cui le due tazzine sono unite tra loro, improponibile quindi il loro uso!

Anche nella fotografia a colori dell’algerina Zineb Sedira (Untitled, 2008) torna la dualità di un amore che significa anche abbandono e inquinamento. In questo caso l’esperienza reale ci porta nell’oceano che lambisce la costa della Mauritania, a una manciata di chilometri dalla capitale, diventato un cimitero en plain air di navi provenienti da ogni dove che stanno stravolgendo l’economia e l’eco-sistema del luogo.

In Three Love Songs (2010), installazione video a 3 canali dell’iracheno Adel Abidin (di base a Helsinki dal 2000), si parla di globalizzazione, stereotipi e manipolazione. Tre giovani donne sexy, che incarnano la bellezza ideale occidentale, cantano ognuna una canzone in arabo (dialetto iracheno) le cui parole altro non sono che quelle volute da Saddam Hussein per la sua autocelebrazione. La musica è jazz, pop e lounge: atmosfere diverse con un unico denominatore.

Di Turbulent (1998) dell’iraniana Shirin Neshat si parla da tempo, ma anche in questo caso la musica – la performance canora – diventa lo scenario di una battaglia muta che combattono le donne iraniane. Attraverso il doppio schermo assistiamo all’esecuzione di un brano da parte di un uomo, (Shoja Azari) davanti ad un pubblico attento e generoso. Sulla destra la compositrice e vocalista Sussan Deyhim si lancia in un vocalismo sofferto, dà le spalle alla videocamera ed è circondata da una platea vuota. In Iran alle donne è vietato cantare in pubblico. La musica è teatro di rivendicazioni, quindi, ma anche espressione di un’interiorità ferita che non rinuncia a combattere, sebbene il dolore non gli sia negato.

Opere in molti casi già note, come quelle citate, ma non meno potenti, con cui dialogo altre realizzare per l’occasione, come Ruins in space (2014) del libanese Raed Yassia che cita la canzone Al-Atlal (The Ruins) di Oum Kulthoum in cui lo spazio fisico e metaforico viene ridefinito proprio in base all’incontro immaginario tra le due grandi cantanti.

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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