Kubra Khademi. Intervista all’artista e performer afghana

Kubra Khademi, Venezia dicembre 2019 (ph Manuela De Leonardis)

Una valigia, simbolico contenitore che nella realtà e nell’immaginario accompagna il viaggio, è sul palco del Teatrino di Palazzo Grassi quando (il passato 18 dicembre 2019) si è parlato di migrazioni ascoltando l’esperienza dell’Atelier des artistes en exil di Parigi, l’associazione che dal 2017 accoglie oltre 200 artisti di diverse discipline provenienti da 45 paesi, promuovendo workshop e organizzando anche il festival Vision d’exil.
Un appuntamento significativo all’interno del ciclo di incontri del progetto culturale sulle migrazioni, voluto dal magnate François Pinault, che a Venezia ha visto la partecipazione di Shaul Bassi dell’International Center for the Humanities and Social Change dell’Università Ca’ Foscari di Venezia con la direttrice dell’associazione francese Atelier des artistes en exil Judith Depaule e tre artisti che ne fanno parte: Aida Nosrat, violinista e cantante iraniana; Mohammad Hijazi, videomaker e autore di cortometraggi di animazione siriano e l’artista e performer afghana Kubra Khademi. 

Body nero, leggins e piedi nudi, Kubra Khademi (è nata nel 1989 a Mashhad, in Iran, dove la sua famiglia si era rifugiata durante la guerra; dal 2015 vive a Parigi) è entrata nella valigia rigida, chiudendo la carniera dall’interno e rimanendo lì per tutta la durata dell’incontro. La valigia è anche il bagaglio pesante che le donne devono portare con sé fin dalla nascita, soprattutto in quelle geografie del mondo in cui nascere donna è un peso, addirittura una calamità.

Nel lavoro pittorico e performativo di Khademi, che si definisce artista femminista, c’è sempre un’attenta riflessione sulla tematica di genere che diventa denuncia in una delle sue opere più emblematiche, la performance Armor (2015). Con indosso l’armatura metallica che esagerava i suoi seni e le sue natiche, l’artista ha camminato nel quartiere popolare di Kote Sangi a Kabulnel nel febbraio 2015. Questa performance (documentata dalle riprese di Mina Rezaie e dalle immagini fotografiche di Naim Karimi) che è costata all’artista l’esilio in Francia è una delle opere attualmente in mostra al Mucem di Marsiglia nell’ambito della collettiva Kharmohra. Art under fire in Afghanistan, curata da Guilda Chahverdi (fino al 1 marzo 2020).

Tra i numerosi progetti futuri di Kubra Khademi anche la residenza a Marsiglia, dove la prossima estate realizzerà un lavoro di “foto performance” insieme al fidanzato, l’attore e regista statunitense Daniel Pettrow e la partecipazione alla Bangkok Art Biennale 2020.

 

Nella tua pratica artistica qual è la relazione tra il disegno, con cui hai iniziato ad esprimerti fin da bambina, e la performance?

Non ricordo esattamente quando ho iniziato a disegnare. Da bambina ho sempre disegnato. Mi piaceva molto, ricordo la sensazione di benessere che provavo quando disegnavo e gli apprezzamenti che ricevevo dai miei. Tranne una volta, quando disegnai delle figure femminili nude. All’epoca disegnavo solo bambine, che non erano altro che immagini di me. L’immagine che mi era più vicina. Figure vestite con dei bellissimi abiti. Una volta, però, disegnai tante donne nude. Erano le donne che avevo visto quando mia madre portò me e le mie sorelle all’hammam di Mashhad. Allora eravamo emigrati in Iran a causa della guerra. Non avevo mai visto il corpo nudo delle donne, tranne il mio e quello delle mie sorelle, e fu uno shock per me. Oggi penso di esserne stata affascinata, per questo quando tornai a casa disegnai quei corpi nudi, senza sapere che stavo disegnando delle vagine. Avrò avuto cinque, sei anni. Non sapevo neanche che per la mia cultura non avrei dovuto farlo. Però, inconsciamente, avevo avuto paura nel mostrare quei disegni, perciò nascosi i fogli sotto il tappeto. Quando mia madre li trovò, mi chiamò e mi diede molte botte. Ero così imbarazzata che per anni non ho più disegnato donne nude. 

La tua famiglia è molto tradizionalista, tua madre si è sposata giovanissima. Quando si è cominciata a manifestare la tua ribellione? 

Sì, mia madre aveva 12 anni quando si è sposata nel villaggio da cui proveniamo, nella provincia di Ghor, nell’Afghanistan centrale. Ha avuto il suo primo figlio a 13 anni. Siamo dieci figli, sei femmine e quattro maschi. Anche due delle mie sorelle si sono sposate giovanissime. Nella mia famiglia non ricordo nessuno che mi abbia mai detto puoi fare questa cosa, hai il diritto di farla, sei un essere umano… No, non l’ho mai sentito! Piuttosto, ho sempre sentito dire questo non lo puoi fare perché sei una ragazza, perché è pericoloso, perché ti devi sposare, devi essere vergine, devi essere obbediente… Perciò non esisteva nel mio vocabolario la frase “non voglio”. Sono cresciuta con questo senso del dovere, ma allo stesso tempo c’era qualcosa dentro di me che mi faceva andare contro. Ho pensato addirittura che ci fosse una diavolo in me, ma era semplicemente il mio essere femminista nel profondo – sebbene inconsciamente – che mi portava ad affermare che sono un essere umano con dei diritti. Attraverso lo studio dell’arte, un po’ alla volta, sono diventata sempre più libera. 

Però è stata proprio tua madre a supportarti nella decisione di studiare arte…

Diceva ai miei fratelli di lasciarmi studiare perché ero un po’ pazza. Si è assunta il rischio e anche l’onere di dover spiegare nel villaggio perché sua figlia non si è ancora sposata, vive da sola, è così libera ed è un’artista, cosa veramente terribile. 

Nel 2008 hai studiato arte alla facoltà di Belle Arti di Kabul. Perché la decisione di continuare gli studi alla Beaconhouse University di Lahore in Pakistan, dove hai studiato dal 2009 al 2013?

Ho sempre pensato di andare fuori dal paese, perché a Kabul non si studia arte contemporanea. Sapevo che dietro quel muro c’era un’altra vita. Ho avuto quest’occasione grazie ad una borsa di studio della Beaconhouse University. 

Quando, nel 2015, ho visitato il National College of Arts (NCA) a Lahore sono rimasta particolarmente colpita dalla preparazione degli artisti che, partendo dall’apprendimento delle tecniche tradizionali, soprattutto la miniatura, spaziano con grandissima versatilità nelle diverse discipline dell’arte contemporanea. E’ questo tipo di apertura che hai trovato anche tu?

Sì esattamente. Alla Beaconhouse University ho avuto dei validi insegnanti, tra cui Rashid Rana, che ci spronavano ad andare oltre. Ho cercato di esplorare il più possibile, partendo dai media. Oltre al disegno e alla pittura ho sperimentato l’uso della macchia fotografica, soprattutto quando ho iniziato a usare il mio corpo e ho studiato il lavoro di Marina (Abramović – n.d.R.), degli artisti viennesi e di molti altri che negli anni Settanta hanno usato il proprio corpo. Esprimere la mia arte attraverso il mio corpo era un altro mondo. Mi sono sentita molto più libera. Condividere l’esperienza, i momenti di vita, con il pubblico non è la stessa cosa che vedere l’azione nel video o nelle foto. Questo tipo di esperienza è veramente importante per me, persino radicale. Anche se mostrare il proprio corpo di fronte ad altre persone può essere più rischioso.

Alla fine del tuo percorso formativo sei tornata a vivere a Kabul, dove nel 2015 hai realizzato la performance Armor 

Anche se non vivevo d’arte, perché a Kabul non ci sono gallerie, né musei o festival, avevo la mia vita e un lavoro. L’arte lì è reale. Nel mio appartamento avevo lo studio dove disegnavo, facevo schizzi e preparavo le performance. Armor è stata l’ultima performance che ho fatto nel mio paese.  Un’armatura femminile di metallo di cui ho disegnato il costume, esagerando la forma del mio seno e delle natiche. Un’armatura che protegge e allo stesso tempo esibisce. Il luogo della performance era a Downtown Kabul, in una zona dove il passaggio di una donna era una grande sfida. Una vasta area dove ogni giorno transitano molti pullman pubblici e milioni di persone. Lì il traffico è pazzesco. Insomma, un luogo in cui c’è un’energia interessante, soprattutto per un lavoro come il mio che parla di quanto sia orribile per una donna passare di lì. Essere donna vuol dire sopportare ogni tipo di abuso verbale e sessuale da parte degli uomini. Proprio per questo ho scelto quel luogo per la mia performance. Avevo la testa coperta dal velo corto che usavo ogni giorno a Kabul, ma indossavo l’armatura. La tensione era altissima. Arrivai lì con un’auto che mi aspettava per riportarmi a casa. Sarei dovuta apparire e poi scomparire alla fine della performance. Avevo calcolato un tempo di dieci minuti, ma la performance è finita un po’ prima: otto minuti dopo. Le poche donne che erano presenti scomparvero velocemente, perché gli uomini cominciarono ad arrivare in massa. Avevo paura, ma allo stesso tempo più percepivo la forte tensione e più mi sentivo forte. Più ero vulnerabile e più il lavoro stava funzionando. Stavo toccando il limite. A quel punto non potevo tornare a casa e il tassista con la mia amica che aveva seguito la performance, partì in un’altra direzione.

Ho letto che a causa di questa performance non puoi tornare in Afghanistan…

No, apparentemente. Ma non voglio parlare del futuro. Non sono più potuta tornare nel mio appartamento. L’amica che era con me mi consigliò di andare lontano da Kabul, dove viveva una sua zia. Così andammo lì. Pensavo di rimanere solo una notte e poi tornare a casa, ma quella sera stessa si parlava di me alla tv e alla radio. La mia immagine era ovunque nei social. Sempre più gente era arrabbiata, criticava, analizzava e c’era chi definiva il lavoro anti Islam, solo perché il mio messaggio era indirizzato verso la libertà sessuale delle donne, una minaccia per la società patriarcale. La situazione andava peggiorando giorno dopo giorno. Pensavo che il giorno dopo la gente mi avrebbe dimenticato, come si fa con le bombe. Perché nel mio paese c’è un grande caos e ogni giorno scoppia una bomba che distrugge qualcosa e causa centinaia di morti che piangiamo, per poi dimenticarli il giorno dopo. Ero proprio sicura che sarei stata dimenticata come una qualsiasi bomba. Ma non è stato così. Ero peggio di una bomba. 

A Parigi pensi di aver trovato la libertà?

In Francia – in Europa – mi sento libera. Di certo qui la gente non mi vuole uccidere. Non come nel mio paese, dove non è solo una persona ma l’intero paese a volermi uccidere! Però in Francia ho avuto qualche esperienza di censura che mi ha veramente scioccata. A Roubaix, nel nord della Francia, avrei dovuto realizzare la performance Eve is a seller in occasione del 17.ma edizione del festival Latitudes Contemporaines, ma il sindaco della città non me lo ha permesso. Però nel mercato di Lille, a Bruxelles e in altri luoghi ho potuto fare la performance di quattro, cinque ore in cui vendo frutta e verdura che vengono disposti sul banco in maniera sessuale. Indosso il grembiule bianco e come una qualsiasi venditrice – del resto alla fine della performance ho venduto quasi tutto – parlo con la gente. Inizio la conversazione presentandomi. Sono Eva, sono la venditrice, qual è il tuo desiderio? Il tutto in maniera provocatoria, ma anche divertente. Il lavoro è incentrato sul mito di Eva e sulla simbologia della frutta. Ma la Francia è un paese cattolico! Ricordo la reazione di una donna araba che guardando frutta e verdura non ha fatto altro che ridere. Non poteva crederci… e continuava a ridere. 

Info:

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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