Kochi-Muziris Biennale 2018. Possibilities for a non-alienated life: conoscenza e disobbedienza

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Particolare dell’installazione di Santha KV, Aspinwall House, Kochi-Muziris Biennale 2018 (ph Manuela De Leonardis)

C’è ancora profumo di zenzero nei vicoli impolverati di Fort Kochi, anche se molti dei depositi concentrati nella zona di Mattancherry non ospitano più i cumuli di sacchi di juta gonfi di spezie (zenzero, pepe, curcuma, cardamomo) sulla rotta di destinazioni lontane.

Secoli di storia in un palinsesto di odori assorbiti dalle mura di queste architetture in parte fatiscenti (motivo in più di fascinazione) che nell’ultimo decennio sono state convertite in spazi dedicati all’arte contemporanea.

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Nathan Coley, A Place Beyond Belief (2012), Aspinwall House, Kochi-Muziris Biennale 2018 (ph Manuela De Leonardis)

Un’atmosfera autentica e inebriante in cui il passaggio delle diverse colonizzazioni (portoghese, olandese, mysorese e inglese) esce dalle pagine della storia diventando memoria viva, come per il bungalow del governatore olandese Hendrik Adriaan Van Rheede Tot Drakestein (oggi sede della David Hall galleria d’arte e caffè) che, appassionato di botanica, legò il suo nome alla pubblicazione dell’Hortus Malabaricus (1678-93), primo trattato sulle proprietà medicinali della flora del Kerala, per il complesso architettonico di Aspinwall House, cuore dell’impresa commerciale creata dal visionario John H. Aspinwall o la sinagoga Paradesi con i suoi vetri veneziani e le maioliche cinesi di cui parla anche Salman Rushdie.

“Le piastrelle di Canton, circa 30 centimetri per 30, importate da Ezechiel Rahbi nell’anno 1100 dell’era cristiana, coprivano il pavimento, le pareti e il soffitto della piccola sinagoga.” – scrive Rushdie nel romanzo L’ultimo sospiro del Moro“Avevano cominciato ad appiccicarvisi delle leggende.
Una diceva che, se qualcuno esplorava abbastanza a lungo, in uno di quei riquadri bianchi e blu avrebbe trovato la propria storia, perché le immagini sulle piastrelle potevano cambiare, cambiavano anzi, di generazione in generazione, per narrare la storia degli ebrei di Cochin.
Altri ancora erano convinti che le piastrelle fossero profezie e che le chiavi per interpretarne il significato fossero andate smarrite col passare degli anni.”  

Non è un caso, quindi, che quando nel 2010 la Kochi Biennale Foundation sotto la direzione di Bose Krishnamachari (presidente e direttore della fondazione) ha dato il via alla prima edizione della Kochi-Muziris Biennale è stato proprio il cosmopolitismo della città a rafforzare la scelta del luogo.

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Cerimonia d’inaugurazione della 4^ Kochi-Muziris Biennale 2018, Aspinwall House con la curatrice Anita Dube e Bose Krishnamachari, presidente della Kochi Biennale Foundation (ph Manuela De Leonardis)

Unica biennale d’arte del subcontinente, la Kochi-Muziris Biennale per questa quarta edizione dal titolo Possibilities for a non-alienated life (dal 12 dicembre 2018 fino al 29 marzo 2019) è curata per la prima volta da una donna, l’artista Anita Dube che si è concentrata su un fitto programma espositivo e di eventi che si sono succeduti durante la settimana inaugurale (talk, musica e cinema) sensibile a questioni politico-sociali, etiche ed ecologiche, nonché sulle tematiche di genere attraverso le opere di oltre 90 artisti internazionali (ma nessun italiano!) di cui il 50% donne: altra conquista niente affatto scontata.

“Piacere e pedagogia”, queste sono le parole chiave con cui la curatrice ha concepito l’intera kermesse ospitata, oltre che nel quartier generale di Aspinwall Hause e alla Cabral Yard, nella Pepper House, Anand Warehouse, David Hall, TKM Warehouse, Durban Hall, MAP Project Space, Kashi Town House, Kashi Art Café e Armaan Building (Students’ Biennale), con una serie di progetti collaterali, tra cui le sculture di Sonu Aggarwal alla Vis-a-vis Art Foundation.

Unica assente (giustificata) la cubana Tania Bruguera che ha preferito rimanere a l’Havana dopo essere stata arrestata, rilasciata e arrestata di nuovo il 3 dicembre scorso per aver manifestato contro il nuovo Decreto 349 in base al quale a tutti gli artisti (collettivi inclusi), musicisti e interpreti è vietato operare in spazi pubblici o privati senza la previa approvazione da parte del Ministero della cultura cubano.

Come si legge nel sito della Kochi-Muziris Biennale: “Sembra esserci un aumento globale della censura contro artisti e creativi. La Fondazione Kochi Biennale si distingue per la libertà di espressione e sostiene il diritto al dibattito e alla libera comunicazione per la comunità artistica globale.”

A far eco a queste parole la “sinfonia di idee”, potenziale strumento di mappatura della Biennale stessa che raggiunge il suo culmine con tre opere straordinarie in cui la combinazione voce-suono-silenzio-musica è determinante nella codificazione della narrazione visuale: For, In your Tongue, I Can Not Fit – 100 Jailed Poets (2018) di Shilpa Gupta, il video Turbulent (1998) di Shirin Neshat e More Sweetly Play the Dance (2015) di William Kentridge.

Luce e oscurità si alternano illuminando per una frazione di secondo i cento microfoni sospesi a cui l’artista indiana Shilpa Gupta affida la voce di poeti di epoche e geografie diverse (da Abu Nuwas a Liu Xia, Habib Jalib, Irina Ratushinskaya) che hanno conosciuto la realtà della prigione, ma che nella poesia hanno trovato la libertà.

L’iraniana Shirin Neshat mette, invece, a confronto il ruolo sociale maschile e femminile nel suo paese d’origine, ricorrendo alla metafora del canto. Davanti al pubblico che applaude per l’uomo, c’è una platea vuota per la donna, scenario di un dramma che è anche interiore.

La dualità di vita/morte, il passaggio della storia, le migrazioni diventano un motivo di danza in cui le silhouettes di uomini e scheletri, disegnate da Kentridge a carboncino, procedono come in una lunga processione laica dove si suona, si cammina e si volteggia al ritmo di un’irresistibile musica.

Il suono s’insinua anche in altre opere della biennale, come nell’installazione creata dalla messicana Tania CandianiString Loom (2018) – trasformando un antico telaio in uno strumento musicale in cui i fili dell’ordito sono sostituiti dalle corde del sitar pizzicate dai liutai Carlos Chinchillas, Ranesh Reju e Vinay Murali.

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Tania Candiani durante la performance Activating the Loom (2018), Aspinwall House, Kochi-Muziris Biennale 2018 (ph Manuela De Leonardis)

Alla pratica artistica della tessitura rimandano anche le opere dell’artista prematuramente scomparsa Priya Ravish Merna e l’installazione di fili colorati realizzata da Santha KV, artista autodidatta di Beypore (Kerala), co-fondatrice con il fratello Vasudevan del Centro per la Tessitura Creativa Tasara che ospita residenze d’artista: il suo è un omaggio alla forza della natura e anche l’occasione per affermare il ruolo dell’arte come tramite tra l’uomo e il divino.

Ancora parole lanciate con coerente animosità dalle Guerrilla Girls da sotto la loro maschera da scimpanzé che ne cela l’identità. La forma è meno improvvisata, ma il contenuto dei loro messaggi non ha perso la verve di quando, nella seconda metà degli anni ’80, davano vita al loro gruppo femminista attaccando di nascosto i loro manifesti-denuncia sui muri di New York.

Emblematico, del resto, il cartello che domina il muro esterno di Aspinwall House in cui queste bad girls invocano il ritorno ai valori tradizionali riferendosi all’aborto nei primi mesi della gestazione che, fino al 1869 (stando agli studi di Carl N. Flanders che citano), non sarebbe stato vietato dalla chiesa cattolica.

Altre straordinarie artiste che hanno operato nell’ambito del femminismo, sperimentando diversi linguaggi declinati sempre in una chiave di disobbedienza sono certamente VALIE EXPORT, Martha Rosler, Mónica Mayer, Marlene Dumas e, tra quelle artiste delle generazioni successive Tejal Shah, Chitra Ganesh, Sonia Khurana, Zanele Muholi, Anoli Perera, Rana Hamadeh.

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Mónica Mayer, installazione The Clothesline, 2018 (part.), Aspinwall House, Kochi-Muziris Biennale 2018 (ph Manuela De Leonardis)

Insomma, come sottolinea Bose Krishnamachari:

“un laboratorio che tenterà di rimuovere le gerarchie della conoscenza, per costruire una struttura che accolga diverse espressioni”

Fort Kochi (Kerala), 15 dicembre 2018.

 

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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