Gerry Johansson il fotografo svedese coast-to-coast. Con Intervista

Gerry Johansson al SI Fest #23 (foto Manuela De Leonardis)

Dietro gli occhiali un paio di occhi azzurri, come certe volte è anche il Mar Adriatico, trovano la loro dimensione apparentemente calma. Gerry Johansson (Örebro 1945, vive e lavora a Höganäs nel sud della Svezia) torna sempre con grande piacere al SI Fest di Savignano. E’ stato qui nel 2012, con la mostra Deutschland, terzo capitolo della trilogia con cui ha analizzato il territorio statunitense (Amerika,1998) e poi quello del suo paese (Sverige, 2005). Nell’ottobre 2013 il fotografo svedese ha continuato la sua ricerca nell’ambito di Adriatic Coast to Coast, un progetto di lettura dei territori litoranei che si affacciano sull’Adriatico, promosso dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna e dall’Istituzione Cultura del comune di Savignano e curato da Stefania Rössl e Massimo Sordi. I due curatori, nonché direttori artistici del più longevo festival italiano dedicato alla fotografia, hanno firmato anche la curatela di Along some roads al SI Fest #23. In quell’occasione è stata realizzata quest’intervista dal vivo, che si è conclusa con l’incontro tra Johansson e Guido Guidi, impegnati – insieme a Cesare Fabbri – anche nella realizzazione di una tiratura di cartoline d’autore in edizione limitata per Osservatorio Fotografico.

Quale è stato il punto di partenza di questo nuovo progetto sul territorio – Adriatic Coast to Coast – e come si è sviluppato?

“La mia prima esperienza a Savignano è stata nel 2012, ma nel 2013 ha avuto luogo il workshop che ha dato vita a questo nuovo progetto. Il mio modo di lavorare è piuttosto semplice. Di solito ho la mia automobile o, altrimenti, ne prendo una in affitto. Sono io a guidare. Mi sposto nel territorio, come in questo caso. Mi sono state date delle mappe in modo che potessi muovermi liberamente, avanti e indietro. Preferisco lavorare da solo, perché se c’è qualcuno con me perdo la concentrazione.”

L’attenzione alla ridefinizione del paesaggio, sia in un contesto urbano e industriale che rurale, in cui viene sottolineata l’interazione uomo/natura, è uno dei temi dei New Topographics. Si sente vicino a questo movimento o trova che ci siano maggiori punti di contatto con la fotografia documentaria di Robert Frank o Walker Evans, benché nel suo lavoro la presenza dell’uomo sia indiretta?

“Mi sento molto ispirato dai New Topographics, ma penso che alcune teorie non si possono applicare molto bene al paesaggio svedese che è completamente diverso da quello americano. Infatti, se quelle regole fossero applicate al paesaggio svedese diventerebbe un paesaggio romantico. Sicuramente Robert Frank e Walker Evans hanno avuto un grande peso nel mio sguardo, ma anche altri autori precedenti come Paul Strand, Bill Brandt. Ma, per tornare ai New Topographics, penso che il fotografo a cui devo un ringraziamento è l’americano Lewis Baltz che ha dato una grande spinta al movimento. Altri artisti significativi sono Bernd e Hilla Becher e l’artista concettuale americano Ed Ruscha.”

Cercare la bellezza nell’ordinario per lei sembra quasi una mission. Filtrare lo sguardo attraverso il bianco e nero sicuramente agevola nell’eliminazione dei rumori.  Non credo, tuttavia, che la tecnica sia esclusivamente finalizzata al risultato estetico. Che significato ha per lei l’uso del bianco e nero e, in particolare, la scelta di stampare da sé le immagini?

“Penso che trasformare il banale in qualcosa di più interessante sia veramente difficile. Ho provato più volte a fare fotografie a colori. Ma il colore mi confondeva e questo complicava le cose. Prima di Stephen Shore e Egglestone l’uso della fotografia a colori era piuttosto tradizionale, più adatta per i giornali. Un genere che non mi interessava molto. Qui, però, ho trovato la fotografia di Guido Guidi che ha una maniera molto rilassata  e naturale di vivere il colore ed il risultato sono delle foto magnifiche che ammiro. Sì, è molto importante per me fare tutto da solo, dallo sviluppo in camera oscura alle cornici, fino all’allestimento della mostra.”

L’azione del camminare è importante quasi quanto fotografare. Quando arriva in un luogo sconosciuto prende in mano la Rolleiflex e cammina in solitudine. Questo suo viaggio personale viene riproposto parallelamente attraverso il libro fotografico e la mostra. Nella scelta delle immagini è particolarmente parsimonioso: un solo scatto per ogni luogo che viene collocato in sequenza, secondo l’ordine alfabetico. In questa visione c’è la necessità di mettere ordine secondo una logica enciclopedica?

“Come ho già detto, mi piace lavorare in solitudine per avere dei risultati migliori. Avendo un grande numero di immagini mi avvalgo di una strategia semplice che mi aiuti a selezionarle.”

Il viaggio implica un’idea di causalità. Come riesce a conciliare metodologia e imprevisto?

“Per me la casualità è molto importante. Non voglio partire da un concetto, ma semplicemente cominciare e far sì che sia la casualità a costruire il progetto. Ad esempio quando si arriva in un bel posto e si cominciano a fare miliardi di fotografie che, magari, nei giorni successivi possono sembrare orribili. Ecco perché  è importante il lavoro successivo di selezionare. Parlando di come riesco a combinare casualità e metodologia, c’è da dire che comunque possono capitare delle belle casualità. Bisogna essere aperti a tutti i tipi di immagini che vengono scattate. La macchina fotografica e’ straordinaria, proprio perchè si possono cogliere così tanti attimi! Il pittore, invece, deve prendere tante decisioni prima di cominciare a dipingere.

Spesso nelle interviste ha parlato di fotografia collegata al subconscio. Scegliere di “Fotografare cose in cui si riconosce” é rassicurante, ma le consente comunque di trovare una chiave d’accesso tra il proprio mondo interiore e quello esterno. E’ così?

“Credo che sia veramente importante, tutto quello che si vede è il riflesso del proprio subconscio. Fare fotografie può essere veramente veloce, si tratta semplicemente di comporre e scattare. Meno si pensa e meglio si scatta. Il grosso del lavoro è la selezione.”

Trova che la definizione “fotografia silenziosa” possa essere rappresentativa del suo lavoro?

“Sì, penso che questa definizione sia davvero carina. Anche se non so quanto sia applicabile alla fotografia. Piuttosto quando vedo le mie foto penso ad un senso di equilibrio.”

Progetti futuri?

“Sto lavorando ad un progetto di foto invernali. Piccoli villaggi sia negli Stati Uniti che in Svezia, a poca distanza da dove vivo. Non mi piace fotografare durante l’estate.”

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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