Giovanna Caimmi. Artista e docente all’Accademia di Belle Arti di Bologna

A colazione con Giovanna Caimmi, Bologna gennaio 2017 (ph Manuela De Leonardis)

Tè che profuma di gelsomino nella scatola metallica bianca e azzurra portata dalla Cina da un amico, yogurt bio e biscotti al cacao, mentre il caffè borbotta nella moka sul fuoco. Prima colazione nella cucina accogliente di Giovanna Caimmi (nata a Cesena, vive e lavora a Bologna: è artista e docente di Metodologia progettuale per la comunicazione visiva e di Tecniche e tecnologie delle arti visuali all’Accademia di Belle Arti di Bologna), tra le pareti verdi su cui si staglia la credenza bianca della nonna. La casa, a San Lazzaro di Bologna, è dinamica e creativa, con le scale di legno che portano al piano superiore dove si trovano le camere da letto. Lassù c’è anche il soggiorno con il giardino d’inverno popolato di rigogliose creature che l’artista ha modellato nell’argilla. La grande vetrata si affaccia sul suo studio che ospita anche le opere realizzate per l’ultima mostra – Il male degli ardenti – un omaggio al grande pittore olandese Hieronymus Bosch, organizzata nella primavera 2016 da ABC-Arte Bologna Cultura.

Parlare di dolci è il momento ideale mentre facciamo colazione, tanto più che quella Torta alla Crema Caffè di cui parla la padrona di casa è direttamente collegata con le vecchie fotografie di famiglia che ha riscoperto circa un anno fa e che sono diventate il fulcro di un nuovo progetto artistico – “quasi un’ossessione” – tra scrittura e immagine.

“E’ un dolce che appartiene alla tradizione praghese delle torte di cento anni fa e più. Lo so fare anch’io e l’ho trasmesso a mia figlia Sophia.” – afferma Giovanna Caimmi – “Si fa con le mandorle, la crema caffè, 8 chiare d’uovo, lo zucchero… Ad ogni natale mia nonna, che era nata nel 1905 a Strakonice, città della Repubblica Ceca ad un centinaio di chilometri da Praga, ci riceveva da lei – a Forlì – e ci dava una scatola quadrata di metallo abbastanza grande. All’interno c’erano sette file di dolci fatti da lei che erano di una bontà strepitosa: mezzelune, dolci alla crema, orecchie di maiale… Si chiamavano proprio così! Biscotti a cui si dava la forma di orecchie di maiale e dentro ci si metteva il cumino, che sembrava la sporcizia nelle orecchie. Erano sette delizie! Una volta, a Salisburgo, ho ritrovato sapori simili che qui da noi non ci sono.”

Questa nonna è una figura centrale anche del tuo lavoro sulle foto di famiglia…

Si chiamava Emilia Havlova, è lei che mi ha trasmesso questo grande amore per l’arte. Era violinista, pianista e dipingeva. Una donna molto silenziosa di estrazione medioborghese che parlava molte lingue, incluso l’italiano rigorosamente senza articoli. Ma non ha mai passato queste qualità e capacità a nessuno dei suoi nipoti. Cosa che mi ha sempre stupito di lei. Un concetto dell’ostacolo che è l’opposto di quello che si fa adesso. Oggi i genitori hanno la tendenza di offrire ai propri figli il più possibile con risultati strani, perché i ragazzi – in questo periodo storico – hanno pochissima vocazione di base. Penso che il fatto di offrire tanto, senza che ci sia l’ostacolo, non è detto che sia produttivo. Quando si ha un sogno impedito si lotta moltissimo per ottenerlo. Comunque, a proposito di mia nonna, mi sono sempre chiesta se lei non trasmetteva le sue capacità per pigrizia, o perché sapeva che i talenti quando si hanno e si praticano non li si augurano agli altri. Lei era anche molto bella e aveva quest’aura attorno. Era consapevole di incarnare un mito, ma essendo molto timida era quasi come se fosse un dovere per lei.

Mi dicevi che era venuta in vacanza a Cesenatico e lì ha conosciuto tuo nonno…

Cesenatico negli anni Venti doveva essere un luogo meraviglioso. Quello che vediamo oggi è molto diverso da allora, come un po’ tutta la Romagna. Luoghi che sono stati devastati dagli anni Sessanta in poi. Nell’Ottocento, per due mesi all’anno, si montavano sull’acqua delle specie di pagode. Si andava a fare i bagni passando da una passerella in mezzo a quelle pagode, gli uomini da una parte e le donne dall’altra. Ci si bagnava stando fermi, senza nuotare, soltanto per la cura dell’acqua salata. Un mio pro-pro zio aveva un’arena estiva sulla spiaggia vicino al molo, ma quando finì il periodo del cinema muto la dismesse, perché secondo lui il cinema era finito. Ci sono tanti aneddoti familiari che stanno saltando fuori. Tutti i parenti Caimmi, ad esempio, erano anarchici, quindi mia nonna si è incontrata con un mondo molto diverso dal suo. Infatti, nell’album di famiglia che lei stessa ha fatto ha tenuto a sinistra i suoi parenti, e a destra quelli di suo marito. Si vede la differenza tra le anime bionde del nord e i romagnoli sanguigni e robusti con la loro bellezza completamente diversa. Nonna Emilia conobbe nonno Alvaro nel 1927 e dopo due anni di fidanzamento si sposarono e andarono a vivere a Forlì, perché lui lavorava in ferrovia.

Questo tuo nuovo progetto è partito proprio dal fondo fotografico di famiglia che hai riscoperto circa un anno fa…

La scorsa estate, dopo il suo ritrovamento, ho deciso di fare il viaggio a Praga che prima non avevo mai voluto fare. Quando ero piccola mia nonna mi aveva detto che ci saremmo andate insieme, però poi ha tergiversato di anno in anno. A vent’anni dalla sua morte ho deciso di andarci, anche per incontrare i parenti di là, con cui mio padre aveva mantenuto rapporti epistolari. Lì ho finalmente saputo la verità su cose che non sapevo. Mia nonna, infatti, era una che sospirava tanto. Una bellezza sospirosa (sorride) e sospirante! Si è sempre comportata come una che ha perso qualcosa e che per questo sospira. Cosa aveva perduto? La ricchezza? La bellezza? Certo, c’era stata la guerra e poi i comunisti… Ma credo anche che, essenzialmente, i cecoslovacchi siano un popolo malinconico oltre che erotico. Ma, tornando alla mia famiglia, non sapevo se la birreria a Strakonice, adiacente alla quale c’era la casa dove è nata mia nonna, fosse stata di suo padre o se, invece, lui fosse solo il manager principale. Dai parenti ho avuto conferma della seconda ipotesi. Nel ’68, poi, arrivarono i russi e un anno dopo suo fratello, che aveva ereditato la gestione della fabbrica, morì. Questo senso di perdita di un qualcosa era molto forte anche lì. Evidente in contraddizioni come la casa molto umile dove vivono, arredata però con mobili antichi provenienti da una casa abbiente. Un po’ come vedere al Museo delle Arti Decorative di Praga, oltre a dipinti e sculture, anche arredi e oggetti – vasi, vetri, teiere…  – che una volta erano nelle case e che ora sono in un museo. E’ un po’ come il sentimento che ho anch’io nei confronti della bellezza in generale, che è diventata un lusso rispetto al nostro vivere quotidiano.

Una bellezza inaccessibile…

Oggi, per chi pratica l’arte, la bellezza non è più un valore. Anzi credo che sia un disvalore. Gli artisti sono impegnati su vari fronti – denuncia, rottura… – e la bellezza è l’ultima cosa che viene richiesta loro e quando emerge viene vista quasi con sospetto. E’ un qualcosa che un artista non si può più concedere. Parlo anche del piacere del colore che viene praticato poco.

Toccare, guardare, studiare quelle vecchie fotografie – tra cui c’è un ferrotipo, stampe ottocentesche all’albumina, negativi di vetro, istantanee alla gelatina ai sali d’argento… – ti permette di lavorare ad una ricostruzione che in parte è storica, ma anche di pura immaginazione…

Sì, necessariamente perché alcune foto parlano, parlano, parlano e le si devono ascoltare. E’ questa la schizofrenia! Prima di andare a Praga immaginavo tanto, dopo le cose si sono messe in chiaro. Quando sono tornata a Bologna sono saltati fuori anche altri documenti, oggetti, addirittura cose che non sarebbero dovute uscire fuori. Ad esempio, a Forlì, ad una mostra sui ferrovieri, mia cugina ha prelevato il fascicolo di mio nonno, dove c’è scritto tutto quello che ha fatto durante il lavoro, dal 1916 al 1960. L’ho tenuto per un mese, spulciando qua e là.  La realtà, allora, si è presentata nella sua banalità estrema. Mio nonno è morto quando avevo 25 anni. Era l’elegantone, sempre vestito con giacca, cravatta, cappello e zanetta, il bastone da passeggio che portava con sé fin da quando aveva vent’anni. Era un po’ freddo e dava l’idea di una persona integerrima. Un nonno che non mi stava molto simpatico. Nel suo fascicolo ho scoperto cose di cui neanche mio padre sapeva nulla. Aveva fatto una piccola frode, per cui era stato punito con la sospensione dal lavoro per un mese durante il quale non percepì la paga. Sono sciocchezze ma anche l’idea di superiorità che aveva sempre dato, in quel momento è stata inficiata. L’andare a scoprire i segreti di famiglia – lettere scambiate, figure scomparse dalla genealogia… – è un ostacolo. Se fai uno scritto d’invenzione te la godi, ma quando cominci a scontrarti con la realtà, non capisci più bene qual è la direzione!

Quelle scatole con le fotografie – diversamente dall’ordinatissimo album della nonna Emilia – provengono dalla casa della prozia, sorella di tuo nonno. E’ curioso, però, che malgrado siano nelle tue mani da anni, non hai mai pensato di guardarle…

Le ho conservate dimenticandole. Forse, adesso che sono grande, posso affrontarle. Le spostavo da una casa all’altra, ma non le aprivo. Sono tutte fotografie in bianco e nero, tranne forse una decina a colori, tra cui quella colorata a mano che ritrae i mei nonni il giorno delle nozze. Il matrimonio è stato celebrato a Praga nel febbraio del 1929 e poi registrato al comune di Cesenatico. Il ’29 fu anche l’anno dell’espulsione dalla famiglia del “personaggio scomodo”, ovvero il bisnonno Vincenzo, padre di nonno Alvaro. Era anarchico – l’anarchico del paese – motivo per cui finiva sempre in prigione. Sembra che fosse un gran bravo sarto e barbiere, ma aveva il vizio del bere quindi accumulava denaro e poi se lo beveva tutto nel giro di poche settimane. Era un problema per la famiglia, così nel ’29 – quando mia nonna arrivò da Praga – il bisnonno Vincenzo partì per il New Jersey. Alvaro, oltre alla moglie prende in casa anche sua madre. Mio nonno non mi ha mai parlato – neanche una volta – di suo padre mentre la madre, di cui ho preso il nome, era una santa. Nel ritratto a mezzo busto ha una spilla a forma di ragno sul colletto. Una donna che mi fa una gran paura! Per dieci anni il bisnonno continuò a spedire a mio padre – che non aveva mai conosciuto, essendo nato dopo che era emigrato – delle riviste anarchiche. E’ morto negli Stati Uniti, non sappiamo neanche dove. E’ stato rimosso, cancellato, infatti nell’album di famiglia la sua foto non c’è. Se non fosse stato per quella foto nella scatola della prozia, dove scriveva senza troppa convinzione “venite qua, figli miei”, non avrei mai saputo della sua esistenza. In questo lavoro di ricostruzione genealogica ci sono tanti altri personaggi, tra cui migliore amica di mia nonna, con cui era cresciuta nella Repubblica Ceca. In una foto è ritratta in maschera in abiti orientaleggianti. Di lei conosco solo il diminutivo, o soprannome, Mana. Nonna parlava sempre di lei. Si sono scritte per tutta la vita, credo che l’ultima volta si siano viste negli anni Sessanta, quando mia nonna è andata nel suo paese. Curiosamente sono morte lo stesso giorno dello stesso anno, entrambe di ictus.

Non è casuale che questo lavoro, in cui la scrittura è stato un bisogno istintivo guidato dalle immagini, nasca a chiusura del progetto su Bosch…

La mostra Il male degli ardenti, accompagnata dal libro, è stata realizzata nel maggio 2016. Un progetto che mi ha impegnata per tre anni. Come dopo ogni mostra temevo il momento di distacco con il lavoro e il vuoto che ne segue, ma stavolta è stato formidabile, perché ho preso le foto, le ho disposte sul tavolo e ho immediatamente voltato pagina!

Anche Il male degli ardenti è un lavoro in cui la parola scritta ha accompagnato il lavoro visivo…

Il lavoro su Bosch è nato quando, durante un viaggio a Lisbona, ho visto Il trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio. E’ iniziato come lavoro video. Per un anno e mezzo ho fatto solo dei piccoli video, con dei set realizzati con sculture che animavo dandogli un movimento sintetico con il programma After Effect. Video che sono in parte analogici e in parte digitali. Solo dopo averli realizzati è cominciata la scrittura e, dopo ancora, i disegni. Uno strano ordine inverso. I disegni, quindi, sono nati dai frame dei video. Ancora oggi non riesco a disegnare senza una base fotografica che mi porta e che, poi, viene completamente sconfessata e dimenticata.

La fotografia come memoria, taccuino…

Sì, però non fotografo. Mentre pratico bene l’immagine in movimento, quella ferma non mi viene di farla.

Poi, come si è sviluppato il progetto su Bosch?

Bosch è stata una fascinazione. Come per questo lavoro sulle fotografie di famiglia, ho lasciato che la sua opera mi parlasse. La ricerca è arrivata un anno dopo. Conoscendo bene la storia dell’arte non dovevo farmi guidare dalla mente. Bosch, poi, non ha lasciato scritto neanche una riga sul suo lavoro. Il bello è che le sue opere parlano infinitamente, ma non si sa esattamente cosa dicano. Rimasi a contemplare Il trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio per cinquanta minuti, iniziando a immaginare che quei personaggi si muovevano, cosa che ho fatto con il video. Ero colpita dai vari particolari. Il nostro concetto relativo alle tentazioni è quasi sempre legato alla carne o al denaro, invece in quel quadro non c’è niente di tutto ciò. Anche l’aspetto cromatico è stato importante, perché l’opera è basata su colori rossi e gialli oro su ambienti foschi. La mia necessità di utilizzare quei colori derivava dal fatto che, per molti anni, nella pittura avevo praticato molto i blu, raffreddandola anche con il bianco. All’epoca lavoravo molto sul concetto di luce. L’incontro con Bosch è stato importante, anche perché ho potuto verificare che lui si sporcava le mani! Non era politicamente corretto, il suo colore è denso, densissimo! Bosch va proprio nella pancia delle persone, non va nella testa.

Dai video anche tu sei passata a sporcarti le mani, modellando quelle tue sculturine con materiali differenti…

Ho fatto delle specie di teatrini con quelle figurine fatte in gomma siliconica, Il negativo è in argilla e il positivo in gomma siliconica, un materiale freddo e contemporaneo che ha dell’humor e che adoro proprio per questa ragione. E’ buffo, strano. E’ una scultura-bambola che non ha la serietà del bronzo. Quando si realizza una scultura in silicone, in qualche modo, si sta scherzando. Del resto, anche in Bosch – e in chi lo studia – c’è un divertimento profondo. Ho usato anche altri materiali, legni, cristalli, marmi, plexiglass… Un pensiero interessante del contemporaneo è la possibilità di far relazionare tra loro mondi diversi E’ un po’ come alla fine dell’impero ellenistico dell’antica Roma, quando le statue avevano un braccio di un tipo di marmo, il volto di travertino con l’onice e lamine d’oro… E’ il pensiero della contaminazione, della non purezza.

Qual è, secondo te, la modernità di Bosch?

Credo che la grande arte sia sempre moderna, contemporanea, futura. Bosch è più che contemporaneo.  Quando, dopo aver analizzato Il trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio, sono passata al Trittico delle delizie – che è il suo alter ego – ho scoperto varie cose. Intanto, quelle figurine bianche, corpi che non emanano odore. Ma ci sono anche figure con la pelle nera. Qui si apre un altro grande enigma. Infatti, quando ho iniziato a studiare queste opere, mi sono imbattuta nelle interpretazioni di Wilhelm Fraenger, studioso che oggi non ha molto credito. Secondo Fraenger quelle due opere sono dissimili da tutte le altre dell’artista, perché il committente doveva essere il capo degli adamiti, setta eretica che all’epoca era molto diffusa nei paesi fiamminghi. Forse lo stesso Bosch era un iniziato. Certamente, guardando quelle opere s’intuisce che si dice qualcosa per traslato, di cui non si hanno strumenti per capire. Un’altra cosa che mi ha colpito è la percezione della natura che, secondo me, in Bosch è devastante. Guardi una foglia e subito dopo ti accorgi che è un pesce, tipo una razza. Elementi umani e della natura che cambiano continuamente! La mutazione è un elemento della modernità che ci fa avvicinare molto al suo lavoro. Questo senso della mutazione mi è rimasto nelle mani, nonostante che il lavoro su Bosch e la mostra stessa si siano conclusi. Infatti, la sera – davanti alla televisione o quando parlo con gli amici – anziché fare l’uncinetto, mi metto a modellare con l’argilla. Un qualcosa che poi diventa un fiore, un animale… Nature ribollenti che fremono, che non sono mansuete. Un lascito dei disegni. Prima. Infatti, le sculture erano nate come set, sculture primigenie. Non guido assolutamente queste nuove sculture che stanno nascendo dai disegni e che accumulo. Riflettono questo mio presente un po’ inquieto, ma non ho idea di dove mi porteranno!

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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