Edson Chagas. L’intervista

Edson Chagas - Found not taken Luanda - 2009-2013

Roma. Tra i ventiquattro artisti e filmmaker provenienti da diciassette paesi africani riuniti nella grande mostra Ici l’Afrique/ Here Africa, curata da Adelina von Fürstenberg e organizzata da Art for the World al Musée des Suisses dans le Monde di Pregny, Ginevra c’è anche Edson Chagas (Luanda 1977, vive e lavora a Luanda). Lo sguardo del giovane fotografo angolano contribuisce, insieme a quello degli altri starordinari protagonisti (tra loro anche Frédéric Bruly Bouabré e J.D.’ Okhai Ojeikere, recentemente scomparsi, Yinka Shonibare-MEB, Idrissa Ouédraogo, Zineb Sedira, Pascale Marthine Tayou, Pieter Hugo) a tradurre la vivacità metalinguistica dell’arte africana contemporanea.
Quest’intervista è stata realizzata a gennaio scorso, in occasione della mostra Agenda Angola curata da Guido Schlinkert al Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma. In questa collettiva, organizzata in collaborazione con l’Ambasciata della Repubblica dell’Angola, veniva riproposta la serie fotografica Found not taken, Luanda che Chagas ha presentato nel padiglione dell’Angola (Luanda, Encyclopedic City), premiato con il Leone d’oro alla 55.Biennale di Venezia. Un dialogo che coinvolgeva le opere di venti artisti angolani della collezione ENSA-Arte: fil rouge la presenza di oggetti “riciclati”, riproposti in una veste nuova.

Quali erano le domande che ti sei posto nel momento in cui hai deciso di studiare fotografia, trasferendoti prima in Portogallo e poi in Inghilterra per frequentare il corso di fotogiornalismo al London College of Communication (LCC) e, nel 2008, quello di fotografia documentaria alla University of Wales di Newport?

Quando sono andato in Portogallo non mi sognavo proprio che sarei diventato fotografo! Volevo studiare cinema, ma frequentando un corso di tre mesi ho scoperto che l’insegnante non sapeva nulla di cinema, ma conosceva la fotografia. Quello è stato il mio primo passo. Benché alla fine del corso già lavorassi come fotografo per un giornale locale, ho capito che avrei studiare di più la storia della fotografia e approfondire l’argomento continuando a frequentare corsi prima a Lisbona e a Londra, poi all’università di Newport una delle migliori per la fotografia documentaria. Ma non ho finito la scuola, perché ho sentito che dovevo tornare in Angola. Lì è andato tutto bene, ho iniziato a lavorare per una testata come photo editor, portando avanti contemporaneamente i miei progetti artistici come Found not taken, Luanda,iniziato a Londra. Tutto, comunque, è partito dall’amore per le immagini. Mia madre ha sempre tenuto album fotografici che mi riguardavo ogni sei mesi. Anche la televisione e l’uso che fa delle immagini mi ha colpito molto. La fotografia, per me, è stata un’altra possibilità di confronto con le immagini. Anche se è congelata, e non è tridimensionale, dà un’immagine del mondo. Va oltre ciò che si può vedere. In un certo senso è come se attraverso la fotografia si potesse vedere il mondo, come sosteneva un noto fotografo americano (Garry Winogrand n.d.R.). Per me, poi, è anche un modo per relazionarmi con la gente, la città, l’ambiente e conservarne la memoria.

Quindi la fotografia è anche un modo di conoscenza?

Sì, in un certo modo anche per conoscere me stesso.

Quali sono le maggiori difficoltà per un artista africano nel parlare della propria identità, senza cadere negli stereotipi?

Probabilmente io ho sempre tenuto a distanza gli stereotipi. Sono cresciuto a Luanda ascoltando Michael Jackson, e altre famose band internazionali, senza pormi la questione che la gente ha in mente su cosa sia l’Africa. Vivendo in Europa mi sono reso conto che la maggior parte dei giornali e delle riviste, soprattutto quando si tratta di fotografia documentaria, mostra immagini dell’Africa in cui è presente la guerra, i bambini poveri… Sì, certo, questo lato esiste come ho sempre detto ai miei amici. Ma esistono anche tante altre cose. Quando sono tornato in Angola ho deciso di lavorare su un piano estetico che non rientrasse nei cliché. La stessa cosa, del resto, è valida per l’America, e qualsiasi altro paese, inclusa l’Italia. Quello che mi interessa è raccontare in maniera indiretta una realtà attraverso, magari, gli oggetti. Per un artista africano è come per un qualsiasi altro artista, cresce cercando sempre qualcosa di nuovo.

Materialismo e globalizzazione sono argomenti che affronti nel raccontare la tua città, Luanda. In Found not taken, Luanda (2009-2013), in particolare l’oggetto trovato viene investito di responsabilità, diventando il punto di partenza – metaforico e non – per una serie di riflessioni sociali.

Sì, noi produciamo oggetti, li usiamo e poi li scopriamo. Ma, improvvisamente, quando li troviamo abbandonati per la strada seguono le stesse regole delle relazioni umane. E’ proprio come nei rapporti tra le persone: ci si incontra, si diventa amici stretti, poi nascono i problemi e non si vuole più vedere quella persona, come in una storia d’amore. Questi oggetti, in un certo senso, sono umanizzati, anche se non hanno i volti. Dialogano tra loro e con la società. Inoltre, considerando che li trovo camminando, si crea un’ulteriore relazione con il tessuto urbano e l’architettura. Qualche volta, poi, mi stanco e trovo un nuovo bar dove fermarmi, così conosco nuova gente. Si crea una situazione fluida che potrebbe succedere anche qui, a Roma. Se sento qualcosa posso lavorare, altrimenti no. 

Quale è il significato di Found not taken?

In portoghese si dice “encontrado, nãoroubado”, ovvero trovato ma non rubato. Nel titolo c’è un po’ il mio lavoro. Catturo la memoria della situazione, non l’oggetto in sé.

L’oggetto diventa anche elemento di catalogazione, che permette di mettere ordine nel caos?

Sì, è una strada possibile. Dipende da quello che si intende per caos! (Ride) Ma è anche molto rilassante, perché è un po’ come essere ancora bambini quando con i Lego si fanno delle costruzioni di base e poi si sviluppano sempre di più. Mi diverto molto perché vado in giro per la strada, trovo un muro e creo la memoria di quel muro. Poi trovo un oggetto, oppure se non lo trovo ritento il giorno dopo. Se l’oggetto sta bene con il muro di cui ho memoria torno indietro per fotografarlo. Tutto questo è possibile perché cammino, cammino.

Quindi crei una messinscena con gli oggetti?

Trovo gli oggetti, ma poi li sposto in un dato luogo. Ad esempio nella foto con la palla mi aveva colpito un muro con i graffiti e poco più in là ho trovato la palla. In quel momento ho pensato che la palla apparteneva proprio a quel luogo. E’ come avere accesso ad un magazzino di cianfrusaglie, o meglio di mobili, dove ognuno ha in mente la propria abitazione e può collocarli al posto giusto. Improvvisamente la città stessa diventa la mia casa, perché cammino prendendo strade che non conoscevo. Quando dalla propria casa si va al lavoro si prende sempre la strada più veloce, in questo progetto, invece, io prendo strade mai percorse prima. E in questo nuovo percorso trovo strani oggetti, strani muri, strana gente, strani bar. E’ tutto nuovo! E’ come se la città diventasse più intima e vicina.

L’attenzione al dettaglio è importante, ma dal tuo sguardo trapela anche ironia. E’ così?

(Ride). Ironia? Forse in alcune immagini c’è ironia. Ad esempio nel lavoro sulle borse (Oikonomos – n.d.R.), dove già il fatto di trovare a Luanda questo tipo di oggetti è di per sé ironico e strano. Borse con scritte in portoghese o con le stelle bianche che ricordano la bandiera americana, ideogrammi cinesi, figure di cowboy… Oggetti che rimandano all’idea di consumismo, perché contenevano prodotti provenienti da altri paesi, in base ad accordi commerciali con l’Angola, che in precedenza erano coinvolti nella guerra fredda. E’ strano vedere ora i diversi linguaggi sulle stesse borse. Ecco, allora, che la borsa contiene ironia. Ma non penso di averla cercata, è implicita negli oggetti stessi.

Hai parlato dell’importanza del camminare all’interno del tuo lavoro, segui una particolare metodologia?

Molto del mio lavoro nasce dalle relazioni, sociali o meno. Anche guardare la televisione può essere un punto di partenza o discutere di un argomento in un bar. O come quando, una volta, mi trovavo a casa di un amico collezionista di maschere africane. Indossai una maschera della sua collezione e, mentre lui parlava con altre persone, mi avvicinai a lui da dietro e gli toccai una spalla. “Levatela subito!”, mi disse. “Potresti morire, è roba di streghe”. Situazioni come queste mi sollecitano a pensare a nuove tematiche. Dal momento in cui comincio a pensare al progetto, la fase è diversa. Entrano in gioco le strategie e il modo in cui devo fotografare, in studio o per strada, o se devo fare una performance. La storia della maschera, ad esempio risale al 2011, ma ho iniziato a pensare di lavorare al progetto solo alla fine del 2012. Penso che la metodologia sia nella relazione tra le cose. 

Vincere il Leone d’oro a Venezia è stato un grande riconoscimento per l’Angola, anche se un primo tentativo aveva avuto luogo alla 52. Biennale d’Arte di Venezia quando la Sindika Dokolo Collection aveva proposto “Luanda Pop”. Si trattava della prima collezione privata africana di arte contemporanea, messa insieme in parte dal tedesco Hans Bogatszke e successivamente acquisita dal collezionista di Luanda. Attualmente quale è la situazione nel tuo paese?

Il Leone d’Oro è stato un riconoscimento fondamentale, ma anche la partecipazione di Sindika Dokolo alla Biennale di Venezia è stata importante, come pure l’istituzione della Triennale di Luanda. E’ che ci vorrebbero tanti altri Sindika Dokolo! C’è ancora molto da fare nel panorama artistico, servono soldi ma soprattutto piattaforme istituzionali per promuovere il lavoro degli artisti. Questo in Angola come in tanti altri paesi. Nel mio paese c’è la necessità di avere musei d’arte contemporanea, come il Zeitz MOCAA di Cape Town in Sudafrica. Noi abbiamo solo musei di storia naturale, archeologia, antropologia… Le mostre si organizzano in poche gallerie d’arte, come SOSO Contemporary Art Gallery e all’Istituto di Cultura Portoghese: ancora non esiste un’industria dell’arte.

Info:

  • dall’8 maggio al 6 luglio 2014
  • Ici l’Afrique/ Here Africa
  • a cura di Adelina von Fürstenberg
  • Musée des Suisses dans le Monde, Pregny-Ginevra
  • organizzata da Art for the World in collaborazione con il Musée des Suisses dans le Monde
+ ARTICOLI

Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.