Mauro Restiffe: l’intervista

Dopo Frieze Art Fair di New York Mauro Restiffe (São Paulo, Brasile 1970, vive a São Paulo) è a Roma per presentare da Acta International & LuminUp la mostra Dialoghi: Emile Hyperion Dubuisson, Allen Frame, Mauro Restiffe. I tre fotografi sono coinvolti anche nella collettiva The Artists Who Came In From The Cold curata da Martin Kunz al Centro Luigi Di Sarro.

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Le immagini del fotografo brasiliano, che come è nella sua cifra stilistica sono in bianco e nero, sono tuttavia decisamente diverse dalle grandi stampe più recenti, come quelle della serie Mirante entrate a far parte della Collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Modena ed esposte in occasione della mostra Decimo Parallelo Nord. Fotografia contemporanea da India e Sudamerica (2012).

Quello esposto nella capitale è infatti un lavoro che risale al 1995, ai tempi in cui studiava fotografia, ma insieme viene presentato al pubblico nella sua totalità per la prima volta. Scatti che raccontano un’intimità sfiorata, accarezzata, in cui Restiffe racconta il viaggio con la fidanzata russa a San Pietroburgo, la sua città natale. La sospensione temporale che caratterizza tutto il suo lavoro è già percepibile nella descrizione di atmosfere e oggetti: vecchi telefoni a parete, bottiglie di vetro, una copia de L’Amante di Marguerite Duras. Sguardi, incontri, momenti.

Hai studiato film alla FAAP University di San Paolo e solo successivamente fotografia all’ICP – International Center of Photograophy. Cosa ti ha spinto a passare dall’immagine in movimento a quella fissa?

“E’ stato un caso. Ho iniziato a studiare parallelamente film e fotografia, poi mano mano che andavo avanti con lo studio mi sono appassionato sempre di più all’immagine fissa. E’ stato un passaggio naturale.”

Quali sono stati, in particolare, i tuoi punti di riferimento?

“Mi piacciono molto i vecchi film come quelli italiani. Ma è molto difficile per me poter dire cosa mi abbia influenzato in particolare, perché è sempre tutto molto fluido. Non c’è un autore specifico. Qualsiasi cosa mi influenza: vedere un dipinto come andare in un museo; vedere una mostra o anche la natura. Il mio è stato un approccio diretto al lavoro degli artisti, all’arte, alla natura.”

In queste prime fotografie del 1995 le immagini inquadrano prevalentemente spazi interni, con il tempo però ti sei spostato sempre di più verso l’esterno. Quale è la relazione tra le due fasi?

“Questo lavoro, in particolare, è stato importante per me perché mi ha dato il coraggio di continuare per la mia strada di fotografo. All’epoca studiavo A New York, poi decisi di andare in Russia per un mese e di tornare negli Stati Uniti per finire la scuola. Nel 1996 esposi a São Paulo alcune foto di questa serie, che contiene cinquanta immagini. Quando ho iniziato questo lavoro c’era molta relazione tra lo spazio interno e quello esteriore. Ma a distanza di anni mi sono focalizzato sempre di più sugli spazi interni in senso metafisico. Per anni le mie prime esposizioni erano collettive, solo sei anni dopo c’è stata la mia prima personale. Questo momento ha segnato il passaggio naturale alla mia apertura verso l’esterno. Oggi sono più interessato al cosiddetto “paesaggio psicologico” in cui si inseriscono anche le figure. Anche questo lavoro in fondo è strettamente collegato con il precedente. L’ ultimo corpo di lavoro che devo ancora presentare si chiama Europa ed è ancora più connesso a queste prime fotografie, perché ci sono spazi esterni, anche notturni, popolati da figure.”

I tuoi lavori sembrano caratterizzati da processi molto lunghi e dalla stretta connessione tra l’uno e l’altro. E’ così?

“Sì. Naturalmente dipende dal progetto. Quanto alla connessione, assolutamente sì, è molto importante per me. Ogni progetto è collegato all’altro, è come un qualcosa di organico.”

Lo scatto sembra nascere più da una riflessione che da un gesto istintivo…

“Penso che nel mio lavoro sono presenti entrambe, sia la riflessione che l’istinto. Infatti la maggior parte dei progetti non sono predefiniti. Mi piace guardarmi intorno e trovare i miei soggetti. Il lavoro nasce da ciò che attrae la mia attenzione in un certo luogo. Però questo qualcosa deve avere un significato in relazione a tutto il mio lavoro. Naturalmente ci sono progetti più concettuali di altri, oppure nel caso di lavori su commissione devo fare più attenzione a quello su cui voglio focalizzarmi. Poi ci sono serie come questa che nascono nella totale libertà. Lì in Russia ho fotografato molto all’interno della mia esperienza di vita, come del resto ora in Italia e, in genere, quando viaggio.”

Usi esclusivamente il bianco e nero. E’ evidente la forte componente metaforica…

“Il bianco e nero è ciò che nella fotografia è più direttamente connesso con il tempo. Ad esempio le foto che ho scattato a Lula nel 2003, quando è diventato presidente del Brasile, sono immagini atemporali. Inoltre per me è fondamentale l’uso del bianco e nero del processo analogico con la pellicola e la carta fotografico, soprattutto al giorno d’oggi in cui il digitale ha cambiato la percezione o anche la comprensione del nostro modo di leggere la fotografia. Quando ad esempio ho esposto per la prima volta a São Paulo foto come quelle della serie Mirante (2010) molta gente mi ha chiesto quale medium avessi usato. Pensavano che si trattasse di fotografia digitale manipolata, era difficile per loro immaginare che fossero state realizzate con la fotografia tradizionale. Soprattutto le immagini stampate in grande formato.”

Quindi continui a fare fotografia analogica?

“Sì, fotografo tutto in analogica.”

E stampi da te?

“Sì, come Cartier-Bresson. Stampo da me i provini e le prove di stampa, ma se le foto sono in grande formato vengono realizzate in laboratorio a New York.”

La fotografia è anche un modo per conoscere te stesso?

“Sì. Per conoscermi o per perdermi… (Ride). E’ un lungo processo di apprendimento. Ad esempio ora nell’ultimo progetto che è di rivisitazione dell’archivio, tutto riguarda la memoria. La fotografia del resto è memoria. Andare indietro nel tempo è un momento prezioso perché in questo processo a ritroso si vede quello che si è fatto e anche quello che si sta facendo. Aiuta anche a capire dove ci si trova. E’ come un album fotografico, un oggetto obsoleto in quest’era digitale.”

Info

  • Dialoghi: Emile Hyperion Dubuisson, Allen Frame, Mauro Restiffe
  • Dal 23 maggio al 28 giugno 2013
  • Acta International & LuminUp, Roma
  • www.luminup.com

 

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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