Yu Yamauchi a Paris Photo. Intervista al fotografo

Yamauchi_Dawn 2006-2009

Parigi, 14 novembre 2014. “Dawn” in inglese è l’alba, l’inizio di un nuovo giorno, un percorso che si apre a nuove possibilità. Quando il fotografo giapponese Yu Yamauchi (1977) ha deciso di avventurarsi sul Monte Fuji, icona stessa del paese, non sapeva esattamente cosa cercasse. Seguendo un’esigenza interiore l’ascesa alla più alta montagna del paese (3776 metri) è stata una sorta di percorso iniziatico alla scoperta di se stesso, in un momento di profonda incertezza.
Fotografo autodidatta Yamauchi ha conseguito importanti riconoscimenti come il New Cosmos of Photography in Giappone (2008) e l’International Photography Award in Fine Art negli Stati Uniti (2009). Tra il 2006 e il 2009 è tornato più volte (per un totale di 600 giorni) a vivere nel rifugio sulla sommità del cono vulcanico. Lassù, sfidando la gravità, ha scattato centinaia di foto su pellicola di cui una selezione è pubblicata nel libro Down (AKAAKA 2012) presentato in occasione di Paris Photo. Immagini che tracciano linee colorate, segni grafici imprevedibili di una natura forse incontaminata.

Hai fotografo in maniera sistematica, come è nata la serie Dawn?

“Nel libro sono pubblicate 57 fotografie. Ho iniziato a fotografare il Monte Fuji nel 2006. Prima di iniziare questo progetto lavoravo come assistente di alcuni fotografi, tra cui Nobuyoshi Araki e Mika Ninagawa e prima ancora ero stato un grande viaggiatore. Avevo visitato molti luoghi non solo in Giappone, anche nel sud-est asiatico. Ma lavorare come assistente di un fotografo vuole dire non avere più indipendenza. Dato che un mio compagno di viaggio aveva un amico che aveva lavorato nel rifugio sul Monte Fuji e sapeva che il guardiano del rifugio, Mr. Seki, stava cercando qualcuno che lo potesse aiutare, decisi di lasciare tutto e andare lì per fare un po’ di soldi che mi permettessero di partire di nuovo. Arrivato lassù, però, ho scoperto soprattutto la bellezza del cielo e ho iniziato a scattare fotografie. In tutta sincerità in quel periodo ero molto confuso. Non volevo diventare un fotografo commerciale, volevo viaggiare ma non avevo soldi. Insomma non sapevo cosa fare nel futuro.”

Per quanto tempo sei rimasto sul Monte Fuji?

“In totale sono stato lì per 600 giorni, 150 giorni per quattro anni. Ma all’inizio non sapevo quanto sarei rimasto.”

Quali sono state le difficoltà del vivere lassù?

“Sul Monte Fuji si può stare nel periodo tra giugno e ottobre. Negli altri mesi è inverno e c’è la neve, perciò è impossibile vivere nel rifugio perché non c’è luce elettrica, né acqua e riscaldamento. Malgrado ciò sentivo il desiderio di quel tipo di vita.”

Quindi non fotografavi in digitale…

“No, ho usato la pellicola.”

In parte il lavoro è stata anche una sorpresa per te, in quanto per mesi non potevi vedere le immagini che scattavi…

“Questo è anche uno dei motivi per cui ho deciso di vivere quell’esperienza.”

In Dawn prevalgono le foto a colori. C’è una ragione?

“In realtà avevo diversi tipi di pellicole, ma erano tutti mischiati in una sacca. Mettevo una mano dentro e tiravo fuori quello che capitava, senza sapere se fosse bianco e nero o colore, diapositiva o negativo. Ogni cosa era frutto della casualità. In particolare ho usato il cibachrome come un negativo, stampando direttamente nei colori additivi, rosso, giallo e azzurro.”

Queste immagini di una natura dirompente sembrano attraversate da una forte spiritualità. E’ così?

“Più che di spiritualità parlerei di rischio, perché ho sempre scattato stando sul bordo di un precipizio, come camminare su un filo. Stare così mi ha fatto sentire di far parte del cosmo. Ho capito la mia posizione nel mondo: Giappone, Monte Fuji, vetta, cielo… un punto tra il sole e la luna in cui ero nel mezzo. Questa riflessione mi ha portato a capire i perché della vita.
Prima di vivere sul Monte Fuji ero pieno di domande esistenziali, stando lì e fotografando ho capito il ciclo della natura e della vita. Le piogge creano il mare, che crea il fiume… ogni cosa è collegata all’altra. Nella luce ho ritrovato me stesso. Sì, la luce è la scoperta miracolosa che ho fatto in quest’esperienza.”

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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