Non solo kimchi: a lezione dallo chef Chanho Jin che all’Istituto Culturale Coreano di Roma ha interpretato creativamente la tradizione gastronomica coreana

immagine per Chanho Jin
Japchae (ph Manuela De Leonardis)

Roma. La gestualità è accompagnata dal ritmo di movimenti sicuri che il giovane chef Chanho Jin (Sunchang, Corea del Sud,1995, vive abitualmente a Jeonju) ripete nella cucina della sede dell’Istituto Culturale Coreano a Roma che, tra le varie attività, ha inserito le lezioni di cucina.

Chanho proviene dalla prestigiosa Università di Jeonju, riconosciuta come “città creativa della gastronomia coreana”: nel 2016 l’UNESCO vi ha organizzato il Creative Cities Forum, incentrato sulla capacità della cultura e della creatività, in particolare del settore gastronomico, nel favorire una migliore qualità della vita nelle aree urbane.

Questa lezione di Chanho Jin, che nel 2013 ha conseguito il primo certificato di cuoco professionista in cucina coreana, seguito da quello in cucina giapponese e poi cucina occidentale, è sulla preparazione del japchae (spaghetti di patate dolci saltati con verdure): coinvolge tutti gli aspetti sensoriali esaltando, naturalmente, le papille con quel retrogusto dolciastro dato dalla salsa di soia con un po’ di sciroppo di amido mais, esaltato da qualche granello di zucchero o, meglio ancora, dal miele.

Certamente l’insegnamento della professoressa Han Bok-jin, Patrimonio Culturale Immateriale della Repubblica di Corea per la cucina regale della dinastia Jeoson (seguita poi dalle lezioni altrettanto significative di Park Soo Jine You Su Hyun)è centrale nella formazione del giovane cuoco, ma le sue ricette propongono versioni in cui la tradizione gioca con la contaminazione.

L’attenzione è, comunque, sul cibo ecosostenibile che, come vuole la tradizione gastronomica coreana, vanta proprietà tanto nutrizionali quanto medicinali. Ad esempio nel kimchi, piatto nazionale della Corea (reperti e manoscritti lo fanno risalire al periodo dei Tre Regni I sec a.C.-VII sec. D.C.), le proprietà più evidenti sono quelle probiotiche.

Ricco di vitamine e minerali è un alimento fermentato ottenuto dal cavolo cinese e da altre verdure che, grazie alla presenza dei fermenti lattici rafforza il sistema immunitario dell’organismo; ha proprietà antitumorali ed è salutare per l’organismo anche per la presenza dell’aglio (coadiuvante nella cardiovascolarità), peperoncino (antiossidante), fibre (coadiuvante nelle funzionalità intestinali, favoriscono l’assorbimento di zuccheri e grassi).

La preparazione del kimchi (gimjang) dal 2013 è Patrimonio Culturale Intangibile dell’Umanità UNESCO grazie alla sua esemplare modalità di condivisione nella preparazione, tradizione che è documentata anche dalle immagini storiche conservate negli Archivi Nazionali.

Durante la lezione hai accennato all’importanza dell’aspetto cromatico nella cucina coreana…

In Corea è importante il sapore della pietanza, ma lo è altrettanto la presentazione e l’armonia che si viene a creare attraverso l’insieme dei colori. Sono cinque i colori principali che devono essere contenuti in molte ricette: nero, bianco, rosso, giallo e verde che contiene anche il blu. Ognuno simboleggia un elemento, ad esempio il cielo, la terra, l’individuo, la natura. Oggi la cucina si è molto modernizzata e non si rispettano determinati criteri, ma se risaliamo alla storia e alle nostre radici tutte le pietanze dovevano mantenere l’equilibrio di questi cinque colori. E’ importante che non ce ne sia uno che prevalga sugli altri.

Alla base della cucina coreana ci sono le salse fermentate, quali sono le loro caratteristiche?

Vari studi scientifici hanno provato l’aspetto salutare per l’organismo umano delle salse fermentate, perché riescono a controllare il livello dei farinacei che coprono la maggior parte delle pietanze assunte dall’individuo durante la giornata. Sono molto valide anche per raggiungere un elevato equilibrio intestinale e si dice che aiutino a prevenire il tumore. Quindi, oltre ad essere essenziali nella cucina coreana proprio per raggiungere un determinato sapore, sono molto buone per la bellezza interna, ovvero per la salute delle persone. La Corea è un paese che ha sempre avuto le quattro stagioni e si cercano di consumare i prodotti stagionali. Questo ha portato il popolo coreano a cercare di conservare gli alimenti, come vediamo sia nelkimchi che nelle salse fermentate. Le verdure venivano poste negli onjji, grandi orci di terracotta che si sotterravano. Quindi anche con il freddo dell’inverno si riuscivano a conservare pietanze che venivano consumate in altre stagioni. Gli ingredienti potevano anche essere avvolti nella paglia e sotterrati, così si creava un’interazione tra gli ingredienti stessi che non venivano isolati, ma continuavano a interagire con la terra e le piante e ciò stimolava la procedura di fermenzazione.

E’ interessante che il kimchisia patrimonio Unesco non per gli ingredienti in sé, ma per l’aspetto collettivo e sociale della sua preparazione…

La condivisione, il senso di comunità che si crea intorno al cibo è essenziale. Questo si manifesta nella preparazione del kimchi, ma anche nelle feste che sono molto sentite e sono anche un’occasione di condivisione, perché tutti insieme si cucinano le pietanze che saranno mangiate con altri invitati. La tavola è un momento molto conviviale, perché si usa mettere tutti i piatti al centro. Ad eccezione della ciotola del riso, non ci sono piatti individuali. La Corea è un paese che ha dovuto attraversare molti periodi di guerra, difficoltà e carestia, ciò ha influnzato il fatto di condividere con gli altri quello che si riusciva a cucinare.

Quali sono gli aspetti della cucina regale della dinastia Jeoson che si sono mantenuti e quando è avvenuto il passaggio dall’elite della corte alla collettività?

La cucina regale è un capitolo poco familiare anche per il popolo coreano. Non tutti sanno che quella cucina è l’inizio di tante ricette che sono diventate quotidiane. Ad esempio ci sono itteokbokki, gnocchi di riso in salsa piccante che oggi fanno parte dello street food, o anche i giapce, gli spaghetti di patate. Prevaletemnente i piatti della cucina regale sono quelli che si propongono durante le feste, perché sono più laboriosi. Al giorno d’oggi si è cercato di modernizzare le ricette semplificandole. I piatti che mantengono in maniera più ortoidossa la ricetta originale sono quelli che si preparano durante le feste, come il galbi-jjim(stufato di manzo) e, tra gli altri, le frittelle arricchite di diversi ingredienti. Quanto al passaggio alla collettività, inzialmente l’importazione di spezie come peperoncino, pepe e sale era controllata dalla dinastia. Essendo molto preziose solo la corte poteva farne uso. Quando si aprirono le porte del commercio, a partire dal 1500 e anche i privati iniziarono a commerciare e importare questi prodotti quella che era una cucina solo ed escluisvamnete della famiglia regale iniziò lentamente ad entrare nelle case delle persone comuni e il popolo iniziò a sviluppare delle ricette che, tuttavia, non erano mai uguali a quelle della dinastia Jeoson.

Per un certo periodo hai studiato danza, una disciplina molto diversa da quella di cuoco. C’è un possibile punto di contatto?

Sì, sono mondi molto diversi, ma penso che siano collegati dal fatto che siano entrambi un’espressione di quello che abbiamo dentro. La danza lo esprime attraverso la flessibilità del corpo e la gestualità; la cucina, invece, nel cibo con cui si trasmette ciò che è nel cuore e nella mente.

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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