Diego Esposito. L’intervista

Diego Esposito - Venezia 1 giugno 2013
Diego Esposito - Venezia 1 giugno 2013
Diego Esposito - Venezia 1 giugno 2013
Diego Esposito – Venezia 1 giugno 2013

Alla Giudecca tutto sembra più rallentato: la dimensione dello spazio, del tempo. Diego Esposito (Teramo 1940, vive e lavora tra Milano e Venezia) è di casa in questo angolo della laguna.
Racconta:

“La scelta di Venezia non è stata casuale.
Io e Paola abitavamo da anni a Milano, ma dovevamo decidere quale fosse la nostra città ideale. Eravamo incerti tra Venezia e Firenze, le due città della grande cultura italiana. Firenze è più classica, rinascimentale, fondata sulla geometria e la perfezione. Venezia, invece, pur essendo una città del nord è orientale. Tutto è frammentato perché è una città fondata sulla luce e per la luce. E’ compresa tra due specchi, l’acqua e il cielo. Ricordo i tramonti che si vedevano dalla prima casa che si trovava alle Zattere, all’ultimo piano di uno dei più antichi palazzi di Venezia. La sera prendeva fuoco. Le pareti erano avviluppate da fiamme di luce e quando ci affacciavamo per vedere i riflessi sull’acqua vedevamo tramonti che non erano mai uguali. Era come un film sempre diverso. Tra l’altro io, che ho amato tanto Turner, solo stando qui ho capito veramente la sua pittura. Dipingere a Venezia è molto difficile, perché l’atmosfera e il movimento continuo della luce che si riflette tra acqua e cielo è un flusso continuo, di trasformazioni infinite. Bisogna imparare a catturare velocissimamente certi input, certe presenze che poi non appaiono più. E’ difficile spiegarlo a parole, molto più facile con un acquarello, uno schizzo”.

L’artista è attualmente impegnato nel progetto Latitudine Longitudine che, iniziato al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato nel 2001, vede sempre l’impiego della pietra locale. Le tappe successive sono state Shanghai nel 2007, Cordova (Argentina) nel 2010 e Lima (Perù) nel 2011: prossima meta Hanoi (Vietnam).

“Quando avrò finito questo mio lavoro, che viene fotografato di volta in volta, un mio collezionista che è uno scienziato americano della Nasa mi farà fare due fotografie satellitari dei due emisferi: solo da lì si vedrà l’opera che parla di unione, di collegamento terra/cielo. E’ il lavoro della mia vita, my dream“.

In occasione della tua mostra a Roma, nel 2009, mi avevi detto di prediligere l’acquarello:

“È un colore che nasce dalla stratificazione, come gli strati geologici. La pennellata successiva non copre, come nell’olio, quella precedente. Nulla si nasconde, come la personalità dell’individuo: ciò che siamo oggi nasce dalla stratificazione dei momenti passati.
Da ragazzino, in Abruzzo, ho cominciato con l’acquarello. Amavo molto la Montagna Sainte-Victoire di Cézanne, per questo avevo scelto una collina montagnosa che era la mia Sainte-Victoire e che ho raffigurato in molti acquarelli. Facevo anche molte marine perché il mare era vicinissimo. In seguito ho lavorato anche con il mosaico, tecnica che cattura la luce e la frantuma rimandandola in milioni di tratti moltiplicati. Scultura e installazioni sono state le tecniche successive. Mi interessa molto lo spazio, quanto all’architettura è importantissima per me. Il problema del vuoto, in particolare, l’ho capito in Giappone dove sono stato molte volte. Il ma è lo spazio tra un oggetto e l’altro e fa parte del lavoro. I giapponesi hanno il “ma” nelle arti visive, in architettura, nella musica, nel suono, nella danza. E’ l’intervallo. Non è come per noi che il vuoto significa il nulla. Da tempo, quindi, non dipingo più in senso tradizionale. Ma continuo a realizzare acquarelli su carte fatte a mano – sono io a decidere misure, peso e altre caratteristiche – che mi faccio preparare durante i miei viaggi in Estremo Oriente. Il mio studio è pieno di pennelli e colori di tutto il mondo, perché viaggio senza bagaglio e quando arrivo in un luogo mi piace acquistare i materiali lì. Ogni paese, infatti, ha un suo rosso, un suo verde… che sono totalmente diversi.”

Parlando del viaggio la conoscenza del luogo è preceduta da un’introduzione letteraria. Prima di partire ti piace leggere autori locali..

“Sì, mi piace leggere il più possibile della cultura del posto e mi faccio consigliare un libro importante di un grande scrittore rappresentativo della cultura specifica. Mi piace viaggiare attrezzato, come un alpinista che prima di conquistare una vetta si informa geologicamente del luogo – tipo di terreno, pietra – e in base a questo saprà che attrezzatura portare. La preparazione è bella quanto il viaggio. Il cibo è anche importante. Personalmente non sono il tipo di italiano che viaggia con gli spaghetti sotto il braccio, piuttosto mi piace assaggiare i cibi locali. Per capire una cultura bisogna mangiare quello che mangia la gente del posto. Sentire certi sapori, certi odori e profumi. E’ importante andare nei musei, ma anche camminare per strada, andare nei mercati, nelle trattorie, conoscere la vita quotidiana.”

Volendo dare una priorità ai sensi, qual è quello che è più all’erta quando sei in viaggio?

“Sicuramente lo sguardo. Mi piace vedere i volti delle persone, le diversità delle etnie. La diversità non è un ostacolo, ma un modo per creare una dialettica. Quando viaggio non mi sono mai sentito uno straniero e ho sempre incontrato delle belle persone. Forse è la fortuna di essere artisti. L’artista non ha nazionalità.”

La macchina fotografica ti ha accompagnato nei tuoi viaggi?

“Sì, ho usato molto la fotografia come appunti, come i taccuini che continuo a portare con me. Ho circa duecento libricini dove c’è tutta la mia vita. Li riempio giornalmente con le mie idee, le mie riflessioni. Ma, allo stesso tempo, uso anche la macchina fotografica. Non sento alcuna differenza tra me, che sono di una certa generazione e uso ancora il pennello, e un ragazzo che usa il video. Il video non è altro che il prolungamento del pennello. La fotografia è interessante perché è anche un altro modo di guardare. E’ un occhio artificiale che, quindi, fa vedere qualcosa di diverso.”

Anche nel tuo lavoro hai usato la fotografia?

“L’ho usata solo una volta in un lavoro fatto a Stromboli. Il titolo era La casa impossibile, perché si trattava di una casa sul vulcano. Con Paola eravamo lì nell’estate 1977, quando ancora non c’era la luce elettrica. Stavamo in una casa bellissima sulle rocce nere. Il vulcano, però, era una presenza inquietante. Anche se non lo vedevamo in casa lo sentivamo sempre, continuamente. Ricordo che quando arrivammo da Napoli di notte, in nave, era tutto buio e si vedeva solo la Sciara del fuoco. Una notte, poi, andai sul vulcano insieme all’artista Giovanni Anselmo, che è stato uno dei primi ad andare a vivere a Stromboli, e ha fatto da guida a me e ad altri amici. Quando arrivammo sul cratere gli altri si misero a dormire, io invece mi sedetti sul bordo esterno. Ricordo ancora la sensazione di caldo del fondoschiena e sopra di un freddo pazzesco. Davanti a me, all’interno del cratere, ce n’erano altri tre più piccoli che esplodevano in continuazione. Ero affascinato, ma allo stesso tempo impaurito, perché capivo che la mia vita dipendeva dal vulcano. Bastava che cambiasse il vento e sarei morto avvelenato per le esalazioni. Non dormii per tutta la notte e quando arrivò l’alba mi sentivo come in un quadro giapponese. Sotto di me c’erano le nuvole e tra l’una e l’altra, attraverso un’apertura potevo vedere la Calabria. Fu un’esperienza stupenda.”

Anche la Grecia è un luogo in cui sei tornato nel tempo…

“La Grecia per me è l’omphalos. Per molti anni con Paola d’estate vi trascorrevamo due o tre mesi. Durante il primo stavamo fermi in un’isola, sempre diversa, a nuotare e a leggere. Quest’esperienza ha rappresentato una svolta nel mio lavoro, come pure la conoscenza della Turchia attraverso i sufi per poi arrivare all’estremo oriente: Giappone, Cina, Corea.”

La matrice spirituale del tuo lavoro ha origine in estremo oriente…

“Un primo grande amore è stato Goethe e in seguito la filosofia greca, il sufismo, il buddismo esoterico in Giappone, lo zen… tutto questo mi ha influenzato moltissimo.”

Cosa ti ha spinto negli anni Sessanta ad andare negli Stati Uniti?

“Alcuni docenti della Temple University che avevano visto i miei lavori a Roma mi invitarono ad andare negli Stati Uniti. Ho vissuto lì dal ’68 al ’72, per alcuni anni sono rimasto a Philadelphia, dove c’è la sede dell’università, poi mi sono spostato a New York. Il ’68 era un periodo stupendo, andai anche a Woodstock! Ricordo che a New York arte, musica e danza si svolgevano tutte negli stessi spazi, ovvero le gallerie d’arte: parlo di autori come Bob Wilson, Steve Reich, Joan Jonas e tanti altri. Si faceva sperimentazione nella totale libertà. Sono stato ai primi concerti di Bob Dylan e Joan Baez . Capitava anche che prendendo un taxi e parlando con il tassista, che all’inizio sembrava altissimo, saltava fuori che era un poeta. Ecco allora che sfilava da sotto di sé il volume delle sue poesie. Un’altra volta un tassista cominciò a parlarmi di Pasolini, era un filmmaker.”

Tra le tue passioni c’è anche la cucina. Raccontavi di aver imparato a cucinare per necessità, proprio quando eri negli Stati Uniti e telefonavi a tua madre…

“Sono nato in Abruzzo, un posto abbastanza tradizionale dove l’uomo non doveva entrare in cucina, quindi non sapevo farmi neanche un caffè. Dagli Stati Uniti cominciai a telefonare a mia madre Antonietta e mi facevo spiegare le ricette. Lei era una cuoca straordinaria come pure mia nonna – la madre di mio padre – che era l’ostetrica e la cuoca del suo paese, Sant’Atto. Quando c’erano i matrimoni chiamavano nonna Maria Elena per preparare i pranzi, cosa che lei faceva per amore, gratuitamente. Il mio piatto preferito sono le scrippelle ‘mbusse, delle crepes arrotolate con dentro del pecorino che si servono nel brodo di gallina. Un piatto veramente divino. Poi c’è il timballo, sempre di crepes, che può essere bianco o al sugo. Anche il “tacchino alla Canzanese” è buonissimo: il tacchino viene totalmente disossato, la carne cucita in un unico pezzo e le ossa disposte tutt’intorno, poi viene messo a cuocere in forno e quando è pronto ha una gelatina naturale. Mia madre faceva anche una zuppa di pesce straordinaria che proposi quando vennero da New York Paul Lamarre e Melissa P. Wolf, una coppia di videoartisti che giravano il mondo per realizzare un video sul mondo dell’arte in cucina. Leo Castelli aveva fatto il caffè, poi Gilbert & George, Daniel Spoerri ed altri. In seguito fecero una mostra a Los Angeles che ebbe tanto successo che realizzarono anche un libro di ricette dal titolo Food Sex Art the Starving Artists’ Cookbook. Ma tradurre in inglese tutti i nomi dei pesci, che in Italia variano da città a città, se non addirittura da quartiere a quartiere come a Palermo, non fu affatto semplice! I miei piatti, comunque, non sono mai uguali. Sono curioso e mi piace inventare anche in cucina, sia dal punto di vista dei colori che dei sapori.”

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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