Tetsuaki Imai: un danzatore butoh nella riserva Hopi. L’intervista

La performance di Tetsuaki Imai - Kykotsmovi - Riserva Hopi (Arizona) (foto di Manuela De Leonardis)

Kykotsmovi, Riserva Hopi (Arizona). Lo studio è piccolissimo, non più di sei metri quadrati: la libreria occupa una parete intera con i suoi libri e gli oggetti che raccontano molto delle passioni di Tetsuaki Imai (Tokyo 1947).

Le bambole kachina, i cesti degli Hopi, molti libri sui nativi americani, ma anche una maschera giapponese, il modellino dell’Harley Davidson (quella vera, del 1977, è nel box accanto allo studio). Alcuni ripiani sono dedicati alla fotografia di Eikoh Hosoe: c’è l’edizione giapponese di Barakei, il volume di Aperture Foundation della serie Masters of Photography e anche Deadly Ashes: Pompei, Auschwitz, Trinity Site, Hiroshima.

Ma il legame che unisce Imai e Hosoe è la danza butoh, di cui sono entrambi interpreti. Il primo da attore/danzatore, il secondo da fotografo. Un grande poster incorniciato mostra Kazuo Ohno, il maestro di Tetsuaki Imai, nel 1995; in altre foto che Imai conserva amorevolmente Kazuo Ohno è con il figlio Yoshito. C’è anche la foto in bianco e nero che ritrae alcuni attori sul palcoscenico: si riconosce Imai insieme a Koichi Tamano e alla compagnia di cui ha fatto parte negli anni ’90.

Quanto al libro sui Grateful Dead, a cui fa da specchio la foto incorniciata di Imai (che anche all’epoca aveva i capelli lunghissimi) con Jerry Garcia, è la prova di appartenenza ai Dead Heads. Non è certo da tutti seguire più di 500 concerti della band della City of Love, come ha fatto lui! Imai, come Hosoe, è buddista e la preghiera del dalai Lama che recita quotidianamente è Heart Sutra.

Quando Hosoe era qui si fermava all’improvviso e, ad un certo punto mi diceva, ehi preghiamo! E iniziava a recitare i sutra.”

Anche è lui ad avvicinarsi al testo scritto in kanji e a recitare i sutra, poi esce dallo studio e fa due passi nella terra sabbiosa, entra nella casa in cui vive con la moglie Mariko. Qualche minuto dopo esce con la valigia bianca in una mano e nell’altra il beauty case di plastica con i trucchi.

È tutto ciò che gli occorre per entrare nel personaggio: il danzatore butoh. Dalla valigia tira fuori il kimono rosso che alterna ad un altro scuro più antico, indossa i zori (i sandali giapponesi) e, prima ancora, le calze bianche che si chiamano tabi. Due maschere, ognuna nella propria custodia, attendono nella valigia il momento in cui verranno usate, una bianca di cartapesta realizzata a Venezia tanti anni fa e una maschera del teatro Nō giapponese di legno laccato.

E poi c’è un lungo nastro rosso che serve come underwear. Il corpo e il volto dell’attore saranno dipinti di bianco. Con un gesto teatrale Imai scioglie i capelli lunghissimi e candidi, indossa zori e kimono, nasconde il volto dietro alla maschera e prende in mano il ventaglio di carta, poi inizia a muoversi lentamente. Una danza silenziosa, malgrado gli schiamazzi delle galline nella gabbia lì accanto, e i cani – due dei sette che girano liberi intorno alla casa di legno – che abbaiano. “Sono io, non mi riconoscete?”, gli sussurra con dolcezza l’uomo in kimono.

I movimenti tracciano ombre sulla terra sabbiosa, il sole di un mattino d’agosto cade infuocato in questa parte dell’Arizona nordorientale. Al di là della strada asfaltata sorge il villaggio Hopi di Kykotsmovi, ai piedi della Terza Mesa. Un orizzonte di cielo azzurro e di roccia ocra che segna la continuità della storia.

Come nasce il suo interesse per la danza butoh?

“Nel 1991 ho ricevuto una lettera da mio fratello, che viveva a Tokyo, in cui mi informava che mia madre aveva un tumore al cervello. All’epoca vivevo già da qualche anno a San Francisco dove lavoravo come ingegnere civile e dovetti tornare a Tokyo per prendermi cura di lei. Mia madre morì un anno dopo, nel frattempo decisi che non sarei più tornato a lavorare nel settore dell’ingegneria e cominciai a frequentare la scuola di Kazuo Ohno. Uno dei motivi che mi ha avvicinato al butoh è che la vita e la morte sono la base di questa danza.”

Quale è stato l’insegnamento del suo maestro Kazuo Ohno?

“Il Kazuo Ohno Dance Studio si trovava, e si trova ancora, a Yokohama, allora insegnavano sia Kazuo che suo figlio Yoshito. Yoshito mi ha insegnato il movimento e la tecnica, mentre suo padre l’anima. Seguii un corso intensivo di due mesi con 22 lezioni che duravano quotidianamente dalle cinque alle otto ore. Dopo questo corso ho iniziato a fare i miei spettacoli in Giappone, Stati Uniti e Francia – ne ho fatti oltre 200 – sia da solo che con alcune compagnie. Ho lavorato anche con il compositore Kitaro, vincitore del Grammy. È stato importante, nello stesso periodo, anche l’insegnamento di Akiko Motofuji, la vedova del grande Tatsumi Hijikata, direttrice del gruppo butoh Asbestos-kan.”

Quali sono le regole del butoh?

“I movimenti vengono sia dal teatro Nō che dal Kabuki, ma il butoh è qualcosa di diverso. L’aspetto psicologico è altrettanto importante. Si può anche rimanere fermi sul palcoscenico senza fare alcun movimento.”

Dal Giappone alla riserva dei nativi americani Hopi, dove vive dal 1996. Cosa l’ha portato qui e come si relaziona al paesaggio e alla gente?

“Dopo il Giappone sono tornato a San Francisco, dove ho continuato a fare performance e dopo tre anni ho deciso di viaggiare con il mio pickup. Ho viaggiato in tutta la zona ovest degli Stati Uniti – California, Arizona, Oregon – continuando a fare le mie performance da solo. Durante questi viaggi ho iniziato a frequentare la riserva Hopi e sono diventato amico del governatore della tribù. Qualche tempo dopo, passando da queste parti con mia moglie, che nel frattempo avevo conosciuto in Giappone, in occasione di una cerimonia ho incontrato il mio amico che aveva lasciato l’ospedale proprio per presenziare a quella cerimonia. Avendo problemi di salute e dovendo tornare in ospedale ci chiese la disponibilità a rimanere per guardare la sua casa e gli animali. Così ci siamo fermati qui, senza tornare nella California del nord dove abitavamo. Da allora sono passati diciassette anni, ma è arrivato il momento di spostarci. Abbiamo acquistato della terra a Taos e a breve ci trasferiremmo lì.”

Pensa che ci sia una relazione tra la danza butoh e questo luogo?

“Sicuramente c’è una relazione tra la cultura tradizionale giapponese e quella Hopi, parlo del nostro patrimonio culturale più antico che oggi non esiste più in Giappone e che, invece, in questa terra c’è ancora. Il villaggio è come una grande famiglia, la gente nasce e muore qui. Gli Hopi vogliono conservare fermamente la propria identità. In particolare sono affascinato dalle danze e dalle cerimonie che durano giorni interi. Penso che ci sia una forte relazione tra le danze Hopi, ad esempio la danza kachina, e il butoh. Ma per loro ogni cerimonia è sacra e legata a segreti, mentre per noi non è così.”

Eikoh Hosoe, che ha documentato con le sue fotografie la nascita del butoh, nel 2006 si è fermato per alcuni giorni presso gli Hopi…

“Ho conosciuto Eikoh Hosoe nel 1992 quando lui e i suoi studenti sono venuti a Yokohama per fotografare le lezioni nello studio di Kazuo Ohno. Siamo diventati amici e quando lui ha portato a termine il progetto su Gaudì mi ha scritto una lettera dicendo che sarebbe voluto venire nella riserva Hopi per fotografare. Questa sua prima lettera è del 1999. Gli ho risposto che non era possibile perché gli Hopi non vogliono lasciare una traccia dietro di sé, per cui niente fotografie, nè video. Qualche anno dopo, nel 2006, ero in Giappone e gli ho telefonato dicendogli che se aveva sempre intenzione di venire nella terra degli Hopi era il benvenuto. “Quando?”, mi chiese. “Anche subito”, gli dissi. Così ci incontrammo all’aeroporto Narita di Tokyo, prese il mio stesso aereo! Hosoe rimase tre o quattro giorni, alloggiava all’Hopi Cultural Center e io lo in giro un po’ ovunque da queste parti.”

Non era frustrante per un fotografo non poter fotografare?

“Sì. Sedevamo uno di fronte all’altro, io gli parlavo degli Hopi e lui ad un certo punto prendeva in mano la macchina fotografica. “Stop, teacher!”, gli dicevo. “Non mi ascolti?”. (ride). Il punto è che non mi ascoltava perché aveva sempre in testa l’idea di fotografare. Un’altra volta l’ho portato nel canyon dei petroglifici. Malgrado il mio divieto e le sue promesse, scattò delle fotografie ma subito dopo la sua macchina fotografica si ruppe. (ride) E anche le sue scarpe! Erano scarpe speciali comprate in Giappone, comode per camminare, che avevano aria gonfiata nella suola. Esplosero per via della pressione atmosferica, vista la grande altitudine. O, forse, era una punizione!”

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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