Paz Errázuriz. Padiglione del Cile alla 56. Biennale di Venezia. Con intervista

Paz Errázuriz - Infarto del alma. Chile - 1993 (Courtesy of the Artist) 3

Tre donne della stessa generazione affrontano in maniera chiara – coraggiosa – tematiche legate all’identità, tra disagi e difficoltà, con coraggio e tenacia, insofferenti ai luoghi comuni e all’ipocrisia dell’apparenza. Quelle della fotografa Paz Errázuriz e della videoartista Lotty Rosenfeld sono Poetiche della dissidenza, così come annuncia il titolo del progetto espositivo firmato dalla curatrice Nelly Richard per il Padiglione del Cile (per la prima volta selezionato in base ad un concorso pubblico) alla 56. Biennale d’Arte di Venezia.

All’Arsenale Paz Errázuriz (Santiago del Cile 1944, vive e lavora a Santiago) – ha iniziato a fotografare nel 1972 con una Exakta, frequentando solo nel 1993 un corso di perfezionamento dell’International Center of Photography/ ICP di New York – presenta tre lavori che sintetizzano il suo sguardo: La mela di Adamo (La manzana de Adán), 1981-89; L’infarto dell’anima (El Infarto del alma), 1994 e La luce che mi acceca (La luz que me ciega/ The light that blinds me), 2010.

Partiamo dall’inizio, come nasce il suo interesse per la fotografia?

“Non ho mai studiato fotografia. Ho iniziato a fotografare poco prima della dittatura, o forse più probabilmente in quello stesso momento. Fotografavo in strada come fotogiornalista, ma lo facevo solo per me. Non avevo alcun contratto con i giornali. E’ stato un compromesso, fotografare era il mio modo di oppormi al regime di dittatura. Per me è stato un esercizio pratico molto interessante, perché il mio lavoro è un’indagine legata ai miei soggetti.”

Qual è stato il suo primo lavoro?

“E’ un libro per bambini (Amalia, 1973 – n.d.R.) che è nato durante il coprifuoco. Non potevamo uscire, dovevamo trascorrere molto tempo in casa e mio figlio era piccolo. In casa avevo degli animali, tra cui una gallina. Questo libro è una sorta di diario della vita di quella gallina tra le mura domestiche, all’interno della famiglia. Realizzarlo mi ha fatto sentire molto più sicura di me, tanto che subito dopo ho iniziato il lavoro sui travestiti che si prostituivano.”

 Fotografare era anche un modo per conoscere se stessa?

“Sì. Avevo vissuto all’estero, in Inghilterra, e volevo fare un lavoro che parlasse di identità, ma senza l’uso di questo termine. Ho iniziato proprio cercando in ogni luogo me stessa e le mie radici. Essere accettata così com’ero dai travestiti è stato importante. Fu un lavoro lungo. Iniziò nel 1981 e  terminò nel 1989 con la pubblicazione del libro La manzana de Adán. Quella fu anche la rovina dell’editore (Editorial Zona, Santiago – n.d.R.), perché la censura si mise in moto immediatamente e fu venduta soltanto una copia del libro. Il libro sparì. Ora quel libro è diventato un gioiello! (ride). Un anno fa una fondazione d’arte mi ha proposto di ripubblicarlo. In un certo senso, per me, il lavoro si è definitivamente concluso solo allora, rivedendo tutti gli scatti che non avevo mai pubblicato prima.”

 Una fotografia sociale la sua, ma anche antropologica…

“Il mio metodo di approcciare la gente, effettivamente, è antropologico. Non scatto immediatamente, prima c’è l’incontro. Spiego alle persone il progetto. Quando mi danno fiducia e appartengo quasi al gruppo, allora inizio a fotografare. Ho seguito questo metodo anche per il lavoro sui gruppi etnici della Patagonia di cui è stato pubblicato il libro Los Nómades del mar (1996). Sono molto legata anche a questo progetto che mi ha fatto conoscere l’etnia Kaweskar, di cui sono sopravvissute all’estinzione solo quattordici persone.”

Quali sono state le difficoltà nell’affrontare El Infarto del alma, il lavoro sui sentimenti e le passioni in manicomio?

“C’è voluto un tempo molto lungo, perché avevo bisogno di conquistarmi la piena fiducia dei pazienti. Ma l’ho avuta, infatti dopo mi chiamavano tia (zia). La prima volta che ho esposto il lavoro, nel 1995, è stato proprio in manicomio. L’anno scorso il direttore del manicomio di Santiago mi ha detto che questo lavoro è stato importante anche per i medici. Infatti, non si erano mai occupati di questi aspetti della passione. Il soggetto è molto delicato e si poteva prestare ad abusi. Il grande ospedale psichiatrico dove ho scattato le immagini è molto lontano da Santiago, dista circa due ore. Si trova in mezzo alle colline, originariamente era un sanatorio per tubercolotici, ma non appena fu costruito venne scoperta la cura per la tbc. Fu abbandonato e a distanza di tempo fu deciso di portarci tutte quelle persone ai margini della società. Sì lavorare a questo progetto f un’esperienza molto forte. Mi avevano dato una stanza, nel reparto dei medici, dove poter alloggiare, ma inizialmente non ce la feci a sopportare quella situazione così pesante e dovetti affittare una stanza nella vicina città di Putaendo. Altrettanto difficile fu, poi, terminare il lavoro. Proprio per via di quel rapporto intenso che si era creato con i pazienti. Quando mostrai loro le fotografie, nelle camere dell’ospedale, le considerarono il loro certificato di matrimonio. I medici mi dissero di non dare loro niente, perché avrebbero potuto litigare. Ma io gli diedi le foto e ci fu chi se le mise sul cuore. Fu molto toccante. La conclusione del progetto è un libro a cui ha collaborato la scrittrice cilena Diamela Eltit. Questo libro è veramente molto prezioso per me.”

In qualche modo il messaggio di cui si fa portavoce è di speranza. E’ così?

“Sì. Sono una vecchia folle ! (ride).”

Ha sempre fotografato in bianco e nero con grande consapevolezza…

“Ho imparato a fotografare in bianco e nero, perché non volevo che nessun altro vedesse le mie fotografie. Ebbi una terribile esperienza quando, sotto la dittura, mi furono distrutte delle pellicole. Fu un gesto così aggressivo che decisi di imparare a fare tutto da me, sia lo sviluppo che la stampa. Il soggetto delle mie fotografie non piaceva, perché si trattava dei travestiti. Allora avevo portato i rullini a sviluppare in un laboratorio, mi dissero che si erano danneggiate per via della luce o qualcosa di simile. Avevano sempre una scusa. Ma con l’occasione imparai la tecnica. Mi affascinava la camera oscura, perché è lì che nascono le storie e si ha il tempo necessario per stare con se stessi, senza interruzioni.”

 Il passaggio al colore, invece, quando è avvenuto?

“E’ avvenuto con il passaggio al digitale, poiché non si trovavano più i materiali, la carta e le altre cose. E non c’era più il tempo. Con il colore sto lavorando al nuovo progetto sulla cecità in cui affronto il problema dell’acromatopsia, una malattia della vista che fa vedere soltanto in bianco e nero. Anche Oliver Sacks ha scritto di questa malattia in L’isola dei senza colore. Ci sono pochissimi casi nel mondo con problemi genetici del genere. Ho invitato la mia amica poetessa Malù Urriola a prendere parte al progetto La luce che mi acceca che è, paradossalmente, il mio primo lavoro a colori.”

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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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