La resistenza attiva di Regina José Galindo. Estoy Viva

"QUIÉN PUEDE BORRAR LAS HUELLAS", 2003 Foto: Victor Pérez Vie di Ciudad de Guatemala

Il rosso del sangue, il bianco delle lenzuola di un ospedale o di un catafalco, poi c’è il colore della nudità. Segni, non semplicemente colori, che attraversano tutto il lavoro di Regina José Galindo (Città del Guatemala 1974) definendo il confine impercettibile tra la vita e la morte. Per lei, Leone d’Oro alla 51. Biennale di Venezia come migliore giovane artista, fare arte è un’azione politica.

Con il suo corpo minuto e adolescenziale incarna metaforicamente la volontà di resistenza di un popolo e la denuncia di violazioni, atrocità, massacri. La giustizia è un grande punto interrogativo, ma la memoria e la testimonianza – a qualsiasi latitudine – assumono un ruolo determinante nell’esigenza di verità, nella dichiarata lotta al crimine.
Estoy Viva, scritto a caratteri cubitali sulla parete del PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano introduce alla mostra ed è anche il titolo di questa prima antologica di Regina José Galindo, curata da Diego Sileo ed Eugenio Viola e organizzata dal Comune di Milano – Cultura, PAC Padiglione d’Arte Contemporanea e Civita a sostegno di Amnesty International.

“Quel dolore è la verità. Io l’ho vissuta”, ripete la voce dell’artista sudamericana mentre legge per un’ora pagine e pagine di testimonianze nel video La verdad (2013). Storie vissute da migliaia di persone durante il conflitto armato che ha sconvolto il Guatemala per oltre trent’anni. “L’esercito che combatteva contro i ribelli dichiarò gli indigeni nemici pubblici perché simpatizzavano con la guerriglia. Per un lungo e cruento periodo li perseguitò e li assassinò senza sosta, mettendo in atto violenze alle donne e alle bambine, torture, soprusi, persecuzioni, la cosiddetta politica della ‘terra bruciata’ e altre pratiche crudeli.”, è scritto nella scheda dell’opera, a pag. 158 del catalogo.
“Mi ha fatto male. Mi fa male”, legge ancora Regina José Galindo.
Il dolore fa parte della sua poetica, tema centrale che le permette di esplorare ed evocare sentimenti e azioni che tenderebbero ad essere rimossi.

“Trovo che sia tristissimo che, dopo tutto il dolore e la sofferenza, la gente stia facendo circoli su circoli, come un cane che si morde la coda.” – aveva affermato nell’intervista che abbiamo fatto nel 2012 in occasione della sua partecipazione alla Biennale Donna di Ferrara – “Nel mio paese non si accetta l’idea che ci sia stato un genocidio, donne e bambini uccisi, diritti umani negati, con la complicità degli Stati Uniti che non fa che creare problemi. Una storia senza fine. E se la realtà non viene accettata, non si può cambiare nulla. Questo è il momento peggiore per il Guatemala, perché c’è una violenza superiore che in passato e la cosa terribile è che il paese non è in guerra. C’è ancora chi crede che gli indios siano terroristi, comunisti e narcotrafficanti. Ma dall’altra parte la gente è fiduciosa, crede che un giorno la realtà possa cambiare.”

Con questa chiave d’accesso ripercorriamo ora l’iter che si snoda nelle sale del PAC: “Politica”, “Donna”, “Violenza”, “Organico”, “Morte”, in cui è evidente il dialogo serrato tra gli oggetti, le immagini fotografiche, i video.
La blusa e i pantaloni bianchi segnati da macchie indelebili di sangue (mostrati nella teca trasparente come una reliquia), ad esempio, sono stati indossati da Regina José Galindo durante la performance El peso de la sangre (2004), quando l’artista sedeva immobile nella Plaza Central di Città del Guatemala mentre un litro di sangue umano scendeva. goccia dopo goccia, sulla sua testa e sul suo corpo. Quanto alle otto otturazione d’oro puro esposte come opere d’arte, sono quelle che un dentista guatemalteco ha inserito nei molari della performer, mentre un altro tedesco gliele ha tolte a Berlino (Saqueo / Looting, 2010) o le catene indossate per quattro giorni (Peso, 2006) e la camera mortuaria refrigerata in cui si è rinchiusa, lasciando che il pubblico aprisse lo sportello e tirasse fuori il ripiano estraibile su cui giaceva il suo corpo nudo (Piel de gallina, 2012).

Di esempi di resistenza attiva, nel lavoro di Galindo, ce ne sono molteplici. In ciascuno è richiesto il coinvolgimento – l’empatia – del pubblico: in caso contrario l’ opera non funzionerebbe. Determinate, poi, il ruolo della fotografia come mezzo a cui affidare la memoria della performance, “forma d’arte effimera”, isolandone particolari significativi. “Se non c’è documento non c’è opera”, afferma l’artista.

Info mostra

  • Regina José Galindo. Estoy Viva
  • a cura di Diego Sileo ed Eugenio Viola
  • PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano
  • Dal 25 marzo all’8 giugno 2014
  • Organizzata da Comune di Milano – Cultura, PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Civita
  • a sostegno di Amnesty International
  • catalogo Regina Josè Galindo. Estoy Viva, Skira Editore
  • www.pacmilano.it
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Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arti visive sulle pagine culturali de il manifesto (e sui supplementi Alias, Alias Domenica e L’ExtraTerrestre), art a part of cult(ure), Il Fotografo, Exibart. È autrice dei libri A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (Postcart 2011); A tu per tu con grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (Postcart 2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (Postcart 2013); A tu per tu. Fotografi a confronto - Vol. IV (Postcart 2017); Isernia. L’altra memoria (Volturnia Edizioni 2017); Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco (Postmedia Books 2019); Jack Sal. Chrom/A (Danilo Montanari Editore 2019).
Ha esplorato il rapporto arte/cibo pubblicando Kakushiaji, il gusto nascosto (Gangemi 2008), CAKE. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (Postcart 2013), Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (Ali&No 2015), Jack Sal. Half Empty/Half Full - Food Culture Ritual (2019) e Ginger House (2019). Dal 2016 è nel comitato scientifico del festival Castelnuovo Fotografia, Castelnuovo di Porto, Roma.

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