Al San Carlo di Napoli

Alexander Briger
Alexander Briger

“Nel ripetersi familiare e preciso di certi riti, si assicura alla massa una sorta di esperienza addomesticata di se stessa”.

Mentre faccio ritorno in paese leggo questa frase e decido di farne il punto di partenza di questo pezzo. In effetti – penso – già il Platone della Repubblica faceva riferimento al potere della musica quale modificante e, come brillantemente notato da quell’impagabile duo Adorno-Horkeimer, la questione del suono sottende il motivo odissiaco delle sirene fino ad attraccare al porto sempre in agitazione dell’industria culturale. Come nello spazio e nel tempo la pratica musicale sia stata diversamente ritualizzata sarà anche degno di essere considerato, ma non esaurisce la funzione della musica quale balsamo per la vita nel suo scorrere quotidiano.

Così, mi unisco ai tanti che hanno deciso di impiegare musicalmente il proprio pomeriggio domenicale col concerto in programma al Teatro San Carlo di Napoli domenica 7 maggio. Non esiste posto migliore, infatti, nel mettere in contatto musica sinfonica e pubblico: la sua calda struttura  accoglie ogni singolo spettatore che ne ricava l’impressione di sentirsi nel posto giusto, a casa oserei dire.

Sono le 18. Il direttore australiano Alexander Briger, pluripremiata bacchetta elegante e raffinata, sale sul podio e, dopo aver atteso il momento giusto, dà inizio al concerto con l’ouverture del Don Giovanni di Mozart – K 527. Senza scomodare la lettura filosofica kirkegardiana, basti ricordare si tratta di una delle opere più celebri del compositore austriaco, la seconda delle sue opere italiane. L’esecuzione proposta ha il potere di trasportarci nell’universo musicale mozartiano, fatto di cellule musicali leggere e fresche, giocate sempre con una maestria da brivido. Molto importante resta prestare ascolto al discorso musicale mentre si dispiega con efficacia quale architettura di suono organizzato. Tutto questo diventa ancora più evidente nel concerto proposto. Non esiste concerto senza solista (per concerto intendiamo infatti quella forma musicale in cui i caratteri espressivi e tecnici del solista vengono messi in contrasto con la massa orchestrale; l’etimo fuga ogni dubbio a riguardo – in quanto cum-certare – e ci consegna la dimensione agonistica di questa forma musicale) e così guadagna la scena Alessandro Taverna, interprete raffinato del pianoforte, lo strumento protagonista del Concerto n. 27 in si bemolle maggiore per pianoforte e orchestra, K 595.

Nei tre tempi di cui si compone – nella struttura del concerto il primo e l’ultimo movimento rapido inscrivono il secondo in tempo lento – è possibile apprezzare la funzione svolta da una cellula musicale quale unità primigenia del discorso in fieri. In Mozart convivono leggerezza e pathos, virtuosismo e intensità della frase musicale. Si veda la conclusione del primo tempo, quando il passaggio dalla massa orchestrale allo strumento solista è sottolineato dagli occhi chiusi del direttore, fermo sul podio, fino alla ripresa energica del finale. Se il secondo tempo segna un andamento più solenne e le variazioni sono affidate ai diversi timbri strumentali dell’orchestra, il terzo tempo chiude il concerto con la stessa energia con cui aveva preso avvio.

Taverna ne conserva tanta, altra per i bis che offre col sorriso ad un pubblico che non smetterebbe mai di ascoltarli: esegue prima piano play piano n.6 di Gulda, grande interprete mozartiano e autore di composizioni davvero effervescenti come quella proposta.

Propone  poi la parafrasi lisztiana del rigoletto, regalando una interpretazione davvero intima e delicata.

Si chiude così la prima parte del programma proposto, tra gli applausi fragorosi di un pubblico mai domo. La voce acusmatica annuncia 20 minuti di intervallo: il tempo giusto per permettere diverse ed importanti operazioni quali il reincontrare vecchi amici, uscir fuori a fumare almeno una sigaretta, consumare qualcosa al bar del teatro, mentre non mancano mai turisti che non rinunciano ad una passeggiatina per il teatro, tra la platea e il foyer.

L’orchestra si anima di nuovi altri elementi, che prendono posto per le esecuzioni di Ravel. Briger torna sul podio per dirigere, sempre a memoria, il resto del programma. Si riprende con la pavane pour une enfant défunte, lavoro giovanile del compositore francese che contiene in germe molti elementi tipici dell’armonia e della condotta melodica raveliane, costituendo un pagina interessante nella sua lineare semplicità – secondo uno schema che sarà riproposto più tardi nel fortunato Bolero. Ravel è un artista fortemente comunicativo, capace di momenti delicati e penetranti: l’espressione dolente della melodia, esposta all’inizio dal corno e continuata poi da un tenero duo tra il fagotto e l’oboe, ben esprime il cordoglio per la morte di una giovane fanciulla. Così come la pavane, anche il menuet antique fu composto inizialmente per piano solo e successivamente trascritto per orchestra; da segnale il tono decisamente maestoso che chiude questa nutrita pagina orchestrale.

Per l’ultima parte del programma – la sinfonia n. 29 in la maggiore, K 201 – l’organico si riduce sensibilmente. Una piccola nota a margine la merita la k che vediamo contrassegnare ogni composizione mozartina: si tratta della numerazione data alle opere da von Kochel (dal cui nome deriva l’abbreviazione K) nel calogo pubblicato per la prima volta nel 1862. Questo lavoro del 1774 attesta una prima maturità sinfonica per il compositore di Salisburgo: la sinfonia tutta è infatti pervasa da uno spirito leggiadro che valorizza i  singoli strumenti mettendoli in rilievo nel gioco imitativo grazie ad una accurata strumentazione. Come si fa sentire quel lento cambiamento della pressione sonora dal piano dei soli violini del minuetto alla esplosione serena – per maestria tecnica e strumentale – dell’allegro con spirito finale. Anche stavolta l’intreccio tra costruzione musicale e svolgimento drammatico arricchisce le pieghe del discorso musicale mozartiano, che si segnala per l’estrema leggerezza che lo anima.

E così, dopo 5 minuti almeno di applausi scroscianti, il fade-out delle luci annuncia il termine del rito musicale cui abbiamo preso parte davvero in molti, in un teatro, che quando è colmo, diventa ancora più bello perché esaurisce la sua funzione di macchina pensata non solo per la musica, ma anche per il pubblico.

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Antonio Mastrogiacomo vive e lavora tra Napoli e Reggio Calabria. Ha insegnato materie di indirizzo storico musicologico presso il Dipartimento di Nuovi Linguaggi e Tecnologie Musicali del Conservatorio Nicola Sala di Benevento e del Conservatorio Tito Schipa di Lecce. Ha pubblicato “Suonerie” (CD, 2017), “Glicine” (DVD, 2018) per Setola di Maiale. Giornalista pubblicista, dal 2017 è direttore della rivista scientifica (Area 11 - Anvur) «d.a.t. [divulgazioneaudiotestuale]»; ha curato Utopia dell’ascolto. Intorno alla musica di Walter Branchi (il Sileno, 2020), insieme a Daniela Tortora Componere Meridiano. A confronto con l'esperienza di Enrico Renna (il Sileno, 2023) ed è autore di Cantami o Curva (Armando Editore, 2021). È titolare della cattedra di Pedagogia e Didattica dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria.

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