Geografie del suono a Napoli

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immagine per Geografie del suonoSono le storie a riempire gli spazi. Sono le storie, e non gli oggetti, a riempire gli spazi. Soprattutto se gli spazi in questione sono spazi occupati, di quelli marcati dalla presenza attiva di comunità che ne decidono i tempi, la gestione, la programmazione in modo del tutto spontaneo.
La lunga gestazione di un processo politico-culturale iniziato da una comunità di lavoratori dello spettacolo e dell’immateriale – costituitasi prima nella Balena al punto da darle casa all’Asilo – ha configurato a Napoli uno spazio altro in cui la pratica artistica potesse conoscere una disseminazione che non si ferma ai bandi europei, statali, regionali et similia, ma che vive della spontanea e non necessaria forza di aggregazione di chi partecipa.
Superato il lustro, è il motore immobile delle continue attività a riscrivere gli spazi di quello che avrebbe dovuto ospitare il forum delle culture. Ed ecco di nuovo le storie, a tramare quegli spazi di attraversamenti che trovano riposo solo nelle narrazioni per rivivere nuovamente nello spazio di un racconto.
Ripercorrevo questa mappa sentimentale mentre raggiungevo vico Giuseppe Maffei, non lontano dalla Napoli dei presepi presidiata d’assalto nei giorni di festa e non da orde di turisti che guardano e che per guardare si arrestano.
Mi avviavo verso il 45esimo appuntamento di geografie del suono, la rassegna musicale più decisa che ci sia in città quanto a nomadismo degli interpreti che animano il nero palcoscenico. Vedete, la condizione strutturale del teatro dell’Asilo è già di per sé garante di questa pratica nomade: le gradinate mobili caratterizzano lo spazio in modo effimero così da dare agli astanti un seggio dove riposare e seguire ordinati cosa succede in scena.

Geografie del suono è una iniziativa di quelle potenti che si assicura una lunga vita fatta di relazioni da giocarsi tutte nello spazio dell’improvvisazione, cioè quella forma di coabitazione nel suono garantita dall’ascolto dell’altro.

Ed è molto importante che una scena del genere conosca finanche una programmazione stabile, che molti la pratichino così da mettersi in gioco di fronte all’altro senza mediazioni – ad esempio di uno schermo quale nuovo monitore della curiosità e della conoscenza. Non è detto poi che queste iniziative debbano accontentare tutti, ma perché dovrebbero?!

I concerti risuonano dunque delle voci di chi ne partecipa, a metà tra la chiacchiera interessata e quella di circostanza. Sul palco il posizionamento degli strumenti fa guadagnare l’horse-shoe di una disposizione radicalmente ordinata.

La musica diffusa a volume non troppo esuberante gioca il ruolo dello sfondo acustico, mentre i minuti rincorrono voracemente le 23, orario imprevisto almeno dovuto. Per la cronaca, è venerdì 12 gennaio 2018 e finalmente fa un po’ freddo. Ma non troppo.

L’affluenza è calda ma discreta, lontana da un sold out – che, fortunatamente. per luoghi come l’asilo non esiste ma è la misura di quel dramma borghese che si consuma nella corsa al posto libero con cui occupare il proprio tempo – di certo partecipata emotivamente. Si sta come tra amici ad ascoltare musica mai ascoltata prima; questa l’impressione.

Ci sono tre interpreti in relazione musicale. Tim Hodgkinson. dopo aver tenuto un seminario a tema improvvisazione e sciamensimo guida il flusso improvvisativo grazie ad un auletico clarinetto che, sebbene non intonatissimo, spicca per intenzione musicale.

Fabrizio Spera si muove con leggerezza sul suo strumento: una batteria che vive delle diverse contaminazioni che sa ben controllare, grazie ad una pressione ed intenzione di rara potenza mentre Gandolfo Pagano si posiziona seduto, con la chitarra sulle gambe, a simulare una tastiera dalle non meglio definite possibilità di composizione del suono.

Il loro flusso si coordina nel tempo, dando luogo a segmenti davvero calzanti tra bordoni dronici, suoni spezzati, frequenze alte, timbri minimi, in una coabitazione accogliente di suoni acustici ed elettronici.

Performano per più di 40 minuti e provano a starci dentro il più possibile. Salgono poi sul palco tutti i partecipanti al workshop, ed è subito musica d’insieme nel senso più audace del termine, tra iniziative personali velocemente mediate in ascolto dell’altro.

Finanche una ballerina che si scatena a piedi nudi sul palco contamina la scena della sua presenza. Ma si è fatto tardi, troppo tardi per continuare ed è arrivato il momento di chiudere i giochi.

La musica finisce; e dove finisce la musica riprendono le parole. Allora me ne vado che non mi va tanto di starle a sentire. Aspettando il prossimo geografie del suono, l’appuntamento che raccoglie musicisti partenopei intorno ad altri in residenza temporanea.

Geografie del Suono: http://www.exasilofilangieri.it/categoria/geografie-del-suono/

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Antonio Mastrogiacomo vive e lavora tra Napoli e Reggio Calabria. Ha insegnato materie di indirizzo storico musicologico presso il Dipartimento di Nuovi Linguaggi e Tecnologie Musicali del Conservatorio Nicola Sala di Benevento e del Conservatorio Tito Schipa di Lecce. Ha pubblicato “Suonerie” (CD, 2017), “Glicine” (DVD, 2018) per Setola di Maiale. Giornalista pubblicista, dal 2017 è direttore della rivista scientifica (Area 11 - Anvur) «d.a.t. [divulgazioneaudiotestuale]»; ha curato Utopia dell’ascolto. Intorno alla musica di Walter Branchi (il Sileno, 2020), insieme a Daniela Tortora Componere Meridiano. A confronto con l'esperienza di Enrico Renna (il Sileno, 2023) ed è autore di Cantami o Curva (Armando Editore, 2021). È titolare della cattedra di Pedagogia e Didattica dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria.

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