Arte compressa # 60. MAXXI-bon

Sono a Roma e ho un pomeriggio davanti. La giornata si è schiarita al punto che arriva il sole: la pioggia bagna un periodo che alterna l’autunno alla primavera. Potrei darmi al labirinto cittadino ma il clima mi distoglie e mi porta al museo, a farmi compagnia delle opere.  Da un po’ di tempo seguo una pagina su fb  che aggiorna di contenuti multimediali l’esposizione fisica When sound becomes form, curata da Carlo Fatigoni (al MAXXI di Roma dal 16 marzo al 28 ottobre).

“Il racconto dell’avanguardia sonora italiana attraverso fotografie, film video manifesti storici, LP originali e contributi audio” – come recita lo snippet opportunamente disponibile in rete – ospita le sperimentazioni sonore in Italia per mezzo secolo, nel chiasmo di due decenni tra due ventenni.

Arrivo grazie a mezzi pubblici puntuali come non mai, tanto da godermi per più di un quarto d’ora quel raggio di sole. Ci sono forze dell’ordine che aspettano chissà chi, chissà per cosa. Biglietteria, guardaroba, bagno: vado diretto, dove mi interessa. Ci trovo tavolate di ragazzi in assetto aula-studio a firmare il nuovo target dello spazio museale: questa cosa che i musei la smettono di essere soltanto contenitori e diventano luoghi di aggregazione merita il contemporaneo a fare da pendant. Non è il caso del Madre, a Napoli. Altrove lo vedo funzionare abbastanza; siamo ancora troppo poco europei, ma ci stiamo attrezzando.

When sound becomes form si riduce all’esposizione orizzontale di dischi, testi e immagini efficacemente didascalizzati e mostrati. Oggetti di uso comune estromessi dalla proprietà privata e fatti oggetto di una limitata fruizione pubblica che non li può usare.

Alcuni i-pad sono piazzati in verticale e offrono la possibilità di mettersi in ascolto delle composizioni che animano l’archivio sonoro sapientemente organizzato. L’interfaccia risulta gradevole e per nulla complicata da controllare. Un lavoro di design grafico che riscrive le abitudinarie forme di ascolto. Peccato solo la navigazione nell’archivio interrompa la diffusione.

Ci trovo pure dei libri che ho a casa, ma immagino la loro quotazione non sia proprio da… arte contemporanea; peccato però che molti altri siano ormai introvabili. Mi chiedo spesso se esista altro modo per entrare in possesso di questi materiali, attratto essenzialmente dalla possibilità di studio che celano. Invece ne posso disporre solo da lontano, secondo quella pratica del vedere che posiziona il pubblico di fronte la storia dell’arte. Sono proprio dei pezzi da museo. E quindi va bene così. Peccato non sia ancora disponibile un catalogo: speriamo si animino in tal senso, perché studiare la musica elettronica a partire dalla categoria della collezione è un esercizio fertile. I ragazzi caricano il cellulare, studiano, escono, bevono, parlano in uno spazio vissuto perché comune.

Non posso esimermi da una passeggiata per tutto il resto di quel tanto costato museo. Sono entusiasmato dalla mostra Gli architetti di Zevi. Storia e controstoria dell’architettura italiana 1944-2000, curata da Pippo Ciorra e Jean-Lousi Cohen e inaugurata proprio il giorno della Festa della Liberazione. A 100 anni dalla nascita, un autore di cui conservo alcuni testi di inestimabile valore viene attraversato da un ricordo fatto di disegni, plastici e materiali visivi secondo il movimento di una cerniera che lega l’architettura alla politica.

Resto incantato dalla sua capacità di stare al posto giusto, davanti ad una telecamera consapevole di parlare non con il solo a lui contemporaneo, anche a tutti noi. Insomma, folgorato dalla sua presenza ritrovo tanti diversi ricordi della sua presenza. Tanti, tantissimi libri. Lontano dall’urgenza soltanto accademica, allontanatosi poi dall’accademia ha praticato il mestiere di scrivere di architettura per metterla in questione, oltre alla forza divulgativa.

Percorro il museo senza troppa fretta, senza troppa voglia: è quasi impossibile mantenere sempre alta la concentrazione, così molti messaggi sono bypassati, soprattutto di quelli che vedono l’arte ad intepretare il ruolo di pacificatore culturale. Finito il mio giro, concluso proprio lì dove aveva inizio, mi rivolgo alla sala multimediale concepita su un modello teatrale. Ci trovo una proiezione di stampo cinematografico pur in mancanza del pubblico. Che poi queste esperienze potrebbero essere caricate su un portale, rese disponibili sempre.

E invece le puoi vedere solo se stai là. Così, torno al bookshop, mi faccio un giro ma non ha una selezione di quelle che mi fanno impazzire. Molto da biblioteca dei massimi sistemi, oltre a tutto il pubblicato rimasto invenduto, eppure a prezzo non scontato. Al punto che ci chiudono dentro. Che per tornare al guardaroba bisogna fare il giro. Ma non puoi entrare, perché ora quello che doveva venire è arrivato, allora tu stai fuori. Non tanto, ma il tempo giusto per perdere l’autobus.

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Antonio Mastrogiacomo vive e lavora tra Napoli e Reggio Calabria. Ha insegnato materie di indirizzo storico musicologico presso il Dipartimento di Nuovi Linguaggi e Tecnologie Musicali del Conservatorio Nicola Sala di Benevento e del Conservatorio Tito Schipa di Lecce. Ha pubblicato “Suonerie” (CD, 2017), “Glicine” (DVD, 2018) per Setola di Maiale. Giornalista pubblicista, dal 2017 è direttore della rivista scientifica (Area 11 - Anvur) «d.a.t. [divulgazioneaudiotestuale]»; ha curato Utopia dell’ascolto. Intorno alla musica di Walter Branchi (il Sileno, 2020), insieme a Daniela Tortora Componere Meridiano. A confronto con l'esperienza di Enrico Renna (il Sileno, 2023) ed è autore di Cantami o Curva (Armando Editore, 2021). È titolare della cattedra di Pedagogia e Didattica dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria.

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