Spunto espositivo. Non solo Napoli

La relazione tra arte e merce può cominciare dalla sostituzione della congiunzione copulativa con la terza persona singolare del presente del verbo essere al fine di porre in rilievo l’identità tra le due e avvicinare l’esperienza al consumo secondo un modello che ritma la nostra quotidianità senza eccessivi ripensamenti a riguardo. Un punto prospettico per indagare questo rapporto è proprio quello dell’esposizione: cioè come e dove posizioniamo, secondo quali rapporti, tanto l’arte quanto le merci. In questo caso, l’identità diventa ancora più evidente perché l’occupazione di uno spazio da parte di entrambe sostiene la nostra esperienza delle stesse.

Non c’è bisogno di fare tanti esempi a riguardo: la consapevolezza di questo legame nella modernità è stata tradotta sia in campo artistico – come manifesta l’esperienza della pop art, sia in campo teorico speculativo – da Benjamin a Baudrillard.

Si può fare un passo avanti sulla questione se si considera la merce stessa oggetto d’arte e i suoi sistemi di esposizione la traduzione di una museologia del quotidiano, con la quale entriamo in contatto in modo quasi coatto, senza dover pagare un biglietto con la possibilità per giunta di rimanere all’aria aperta. Facciamo un esempio.

Vivo in una città – Napoli – dove la stratificazione urbana permette di entrare in contatto con diverse tipologie di esposizione per le merci, ognuna delle quali suggerisce modelli socio-economici diversi e si traduce in una singolare occupazione di spazio. Quindi, se passeggio tra le vetrine dei negozi della buona borghesia cittadina, in una arteria nobile quale via dei Mille, ho davanti a me un certo modo di esporre quella merce costosa, come si trattasse di opere uniche destinate alla contemplazione del consumatore, come si trattasse di una singolare collezione privata. All’interno c’è anche una guida in compagnia di un addetto alla sicurezza, come abbisognano le vere opere d’arte. Difficilmente varco la soglia di questi esercizi commerciali: mi limito a guardarli da fuori, consapevole dell’impossibilità di toccare la merce esposta.

Continuando la mia camminata arrivo poi su via Roma, anch’essa preda di quella passeggiata commerciale che ritma gli spazi di qualsiasi smart city, dove il consumo traduce il benessere. Qui la situazione è un po’ diversa: ci sono molte più merci, sono esposte in modo assolutamente diverso, conservano tutte però un certo ordine: anzi, il mantenimento dell’ordine è alla base della curatela degli addetti che ne gestiscono il posizionamento. In effetti, l’aura contemplativa decade, il tatto subentra a esercitare il suo dominio materiale. Qui tutto resta per adeguarsi alle collezioni, alla moda che ritma il tempo con il suo ciclico ritornare. E gli esercizi commerciali si sostituiscono tra loro con una certa frequenza, a delineare i trend e le abitudini.

Arriviamo al punto, alla merce che si inserisce nel paesaggio urbano, al mercato quale formula più antica di commercio, alla diversità di genere merceologico che la sua configurazione prospetta allargando le maglie dello specialismo.

La caratteristica decisiva della proposta mercatale resta il posizionamento orizzontale delle merci, non più disposte secondo una logica verticale che si confà ad un certo modo di produrre e posizionare l’arte.

Stavolta, ci troviamo di fronte a un dripping che ricorda le operazioni di Pollock tali che se li fotografassimo dall’alto (come in uso in alcune fotografie di Oliviero Toscani che scannerizzano i soggetti proposti) ci troveremmo di fronte ad un’opera incredibilmente colorata che resta per giunta stesa per vie orizzontali.

Per rimanere nel solco della passeggiata napoletana, avremmo raggiunto quindi il mercato degli indumenti usati che solitamente staziona di fronte Porta Nolana, grazie ad un drone avremmo fotografato dall’alto la merce chiedendo agli esercenti di togliere quegli ombrelloni che nel limitare i confini degli esercizi commerciali fanno ombra ai consumatori stessi, scultori di un’opera in movimento mentre ricercano l’indumento che traduce la loro ricerca.

Insomma, questa breve scorazzata tra alcune arterie della città permette di osservare diversi modelli di esposizione delle merci al pubblico che ci fanno riflettere sulla loro vicinanza, favorita com’è dall’impiego del tatto: proprio il tatto diventa dunque il tratto che misura la differenza tra le merci e le opere – resta infatti escluso dal godere degli oggetti d’arte mentre guadagna dalle merci il diritto ad entrarne in possesso.

Questa diversità dei rapporti sostiene una differenza che può essere ridotta dalla semplice fotografia, in grado di riprodurre qualsiasi opera grazie alla sua durativa bidimensionalità.

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Antonio Mastrogiacomo vive e lavora tra Napoli e Reggio Calabria. Ha insegnato materie di indirizzo storico musicologico presso il Dipartimento di Nuovi Linguaggi e Tecnologie Musicali del Conservatorio Nicola Sala di Benevento e del Conservatorio Tito Schipa di Lecce. Ha pubblicato “Suonerie” (CD, 2017), “Glicine” (DVD, 2018) per Setola di Maiale. Giornalista pubblicista, dal 2017 è direttore della rivista scientifica (Area 11 - Anvur) «d.a.t. [divulgazioneaudiotestuale]»; ha curato Utopia dell’ascolto. Intorno alla musica di Walter Branchi (il Sileno, 2020), insieme a Daniela Tortora Componere Meridiano. A confronto con l'esperienza di Enrico Renna (il Sileno, 2023) ed è autore di Cantami o Curva (Armando Editore, 2021). È titolare della cattedra di Pedagogia e Didattica dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria.

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