Andy Warhol e la Scuola di New York. Gli States si mostrano al Complesso del Vittoriano di Roma. Con fila che non fila

immagine per Andy Warhol e la Scuola di New York
Andy Warhol, foto di Paolo Di Pasquale

Deve essere stata per una gita scolastica, la mia ultima visita al complesso del Vittoriano: era il 2007 e lo spazio accoglieva Paul Gaugin. Ci rimetto piede al principio del 2019, in occasione della doppia mostra che celebra in qualche modo gli States: da un lato c’è Andy Warhol, dall’altro Jackson Pollock e gli altri Irascibili, nella accomodante definizione di Scuola di New York.

Da studente liceale tante cose si perdonano all’esibizione, da comune cittadino un po’ meno e quindi ammetto che il plesso del Vittoriano risulta sgradevole se c’è da attendere; si potrebbe ribattere che la fila è cosa buona e giusta, specie se c’è da ammirare quel poco che hai dietro le spalle: lasciamo passare questo, ma quei bagni sono insufficienti ad ospitare un flusso enorme di visitatori, l’ingresso così aperto al freddo è sicuramente spiacevole; insomma, bisognerebbe trovare una soluzione che tenga in equilibrio moneta sonante e benessere dei visitatori, al netto di distributori per bevande e alimenti che sostituiscono quell’area bar che pure sarebbe opportuna.

Tant’è che pagato alla cassa, bisogna superare le persone in fila per andare a posare le proprie cose, risuperare le persone in fila e poi dare inizio alla visita dedicata ad Andy Warhol che per semplicità faremo partire dal catalogo, laddove questo concretizza tutto l’esposto, dalle opere alla cartellonistica per la sadica cifra di più di 30 euro spacciata per un’offerta.

Icone, musica, star system, disegni, polaroid e acetati: in queste indicazioni fissate in alto, come quando si indicizzano i prodotti in un grande supermercato, confluiscono le tante opere messe a parete. Una collezione senza dubbio importante, soprattutto se lo spazio a disposizione è così poco da regalare una stanza di passaggio ad una sorta di installazione multimediale tra colori e pareti falso-riflettenti, il tutto per la gioia del fotografare.

All’ingresso, un video didattico spiega qualcosa sull’artista sovrapponendo l’audio didascalico ad immagini più immediate.

La collezione risulta utile per derivarne alcune tendenze della Pop Art e resta da completare attraverso una attenta disamina del contesto socio-economico attraverso cui motivare questa esperienza. Alcune opere sono ricorsive (come le polaroid di Giorgio Armani) ma va bene così: è una mostra (prodotta e organizzata dal Gruppo Arthemisia in collaborazione con Eugenio Falcioni & Art Motors srl e curata da Matteo Bellenghi) pensata per la passeggiata tra le serigrafie, da consumare essa stessa in meno di un’ora.

Usciamo, al freddo e al gelo, perché questi spazi sono lasciati al chiuso fino a un certo punto – lo testimoniano tutti i lavoratori costretti, quasi, a indossare i guanti – e riattraversiamo la fila (è pensato bene, questo gioco della coda, dal momento che se a decretare il successo sono soprattutto le file, in questo caso qui quella diventa quasi uno strumento necessario: il discorso… fila?) e andiamo dalla scuola di New York.

Circa 50 capolavori – tra cui Number 27, la celebre enorme tela di Pollock lunga più di 3 metri e”resa iconica dal magistrale equilibrio fra le pennellate di nero e la fusione dei colori più chiari”.

La mostra si apre con il solito video didattico, con Luca Beatrice (la mostra è prodotta e organizzata da Arthemisia in collaborazione con The Whitney Museum of America Art, New York e curata da David Breslin, Carrie Springer con Luca Beatrice, appunto) a simulare un bar della City di quegli anni là, a dare degli utili riferimenti a visitatori che da lì a poco percorreranno un corridoio adornato attraverso dripping tecnologico, non prima di aver letto quella lettera messa a loop degli irascibili perché tenuti fuori dalla mostra che avrebbe dovuto presentare al pubblico le ultime istanze dell’arte contemporanea nella scena new-yorkese.

Questa mostra – mi sembra quasi di ripercorrere nelle intenzioni una più meticolosa temporanea andata in scena nei mesi scorsi presso l’Orangerie per poi scoprire sia la stessa andata in scena un lustro fa a Milano – è più gradevole che la precedente: addirittura ci sono dei posti per sedersi!

Presenta un po’ meglio gli autori, dopo una congrua ricognizione del lavoro di Jackson Pollock, soprattutto a mezzo riprese visive che consegnano al visitatore la danza dell’autore intorno alla tela, in aperta simbiosi con il jazz apollineo di sottofondo che ben si presta a dispiegare la forza creativa celata in quell’opera ormai a misura di istantanea.

Opportunamente affollato, troviamo le opere di questi irascibili (tra gli altri, Kline, Gorky, Rothko, De Kooning, Baziotes, Motherwell, Newman) e la cosa deve essere davvero importante nel coniugare le tendenze di ognuno laddove De Kooning non perde di vista la figurazione mentre Rothko si dedica all’estensione della materia.

Insomma, l’operazione risulta riuscita e ce andiamo soddisfatti dalla mostra senza dimenticare le quasi assenti indicazioni che ci accompagnano all’uscita – dapprima esposti al Museo del Risorgimento per poi ritrovare la strada e abbandonare la struttura, non prima di aver riattraversato la fila (!!!), ripreso le nostre cose, riattraversato la fila e aver nuovamente riconquistato il fuori.

In definitiva Arthemisia può senza dubbio ritenersi soddisfatta: la sua proposta è premiata da un incessante traffico di visitatori ben disposti a pagare pure di entrare in contatto con l’arte, però dovrebbe trattarli un pochino meglio non limitandosi a fornire loro una audioguida.

Quanto alla razionalità della mostra, ho trovato opportuno sovrapporre all’espressionismo americano la pop art di Andy Warhol, secondo un movimento quasi di reazione a quanto confinato esclusivamente nei feelings.

+ ARTICOLI

Antonio Mastrogiacomo vive e lavora tra Napoli e Reggio Calabria. Ha insegnato materie di indirizzo storico musicologico presso il Dipartimento di Nuovi Linguaggi e Tecnologie Musicali del Conservatorio Nicola Sala di Benevento e del Conservatorio Tito Schipa di Lecce. Ha pubblicato “Suonerie” (CD, 2017), “Glicine” (DVD, 2018) per Setola di Maiale. Giornalista pubblicista, dal 2017 è direttore della rivista scientifica (Area 11 - Anvur) «d.a.t. [divulgazioneaudiotestuale]»; ha curato Utopia dell’ascolto. Intorno alla musica di Walter Branchi (il Sileno, 2020), insieme a Daniela Tortora Componere Meridiano. A confronto con l'esperienza di Enrico Renna (il Sileno, 2023) ed è autore di Cantami o Curva (Armando Editore, 2021). È titolare della cattedra di Pedagogia e Didattica dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.