Origini della videoarte fra politica e comunicazione e altre storie d’arte – Intervista a Simonetta Fadda

immagine per Simonetta Fadda
David Hall, TV Interruption piece, 1971
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Cover Definizione Zero

Il fascino dello studiare in biblioteca risiede non tanto nel ricercare testi coerenti con la propria ricerca quanto porsi in attesa di quel libro che può capitarti tra le mani, talvolta per uno sguardo di troppo agli scaffali, talvolta in virtù di una parola sbagliata nel motore di ricerca giusto. Così, intento in alcune ricerche sulla iconodulia in biblioteca Anna Caputi, presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, mi imbatto in un testo che congela la mia attenzione già dal titolo: Definizione zero. Si tratta di un testo edito da Costa & Nolan nel 1999, cui autrice è Simonetta Fadda – dall’indicativo sottotitolo Origini della videoarte fra politica e comunicazione. Lo consulto, ne resto rapito e decido di iniziare la mia ricerca del testo che – cosa rara – si conclude felicemente alcuni giorni più tardi grazie all’acquisto della ristampa di Meltemi del più recente 2017. Tra le due versioni cambia di certo tanto il prezzo quanto lo spessore.

Una lettura abbastanza agile, di certo utile per ricostruire la storia della videoarte, che spesso sfugge all’attenzione di chi è troppo preso da altri quadrilateri.

Di certo completa nell’offrire una metodologia di ricerca in grado di abbracciare in modo esauriente le diverse aree tematiche su cui si sviluppa, con un particolare occhio di riguardo all’esperienza italiana e la lente di ingrandimento rivolta agli anni ’70.  Mi ha colpito la sintassi serrata che compone il testo, soprattutto nella prima parte – decisiva per affrontare teoricamente corazzati la seconda – che analizza il medium con particolare acume socio-tecnologico.

Bando alle mie considerazioni, ho contatto l’autrice riuscendoci al primo tentativo grazie ad una mail al giusto indirizzo di posta elettronica. Simonetta Fadda (http://www.fondazionemilano.eu/cinema/content/simonetta-fadda) si mostra aperta al dialogo solo se i termini della questione si presentano chiari e non generalisti. Così, trovato un accordo sui contenuti, risponde con molta schiettezza ad alcune domande che le rivolgo al fine di rendere manifesti alcuni principi che motivano la sua ricerca archeologica sul video in rapporto ad un indeterminato presente.

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David Hall, TV Interruption piece, 1971

Nel suo testo Pensare le tecnologie del suono e della musica Agostino di Scipio rilegge le pratiche fondative della musica elettroacustica nel solco della sovversione del mezzo: si vedano tanto i segnali di controllo radiofonico usati per la sintesi additiva nel caso della WDR di Stockhausen quanto il solco chiuso nella pratica di Shaeffer. In che modo questo ri‐orientamento del mezzo può essere traslato alla videoarte?

Ai suoi esordi, negli anni Sessanta/Settanta del Novecento, anche il video degli artisti ha avuto le stesse caratteristiche di sovversione del medium, attraverso un “uso distorto” della tecnologia: sono cose di cui parlo a lungo nel mio studio sulle origini della videoarte. Gli esperimenti di Stockhausen e quelli di Schaeffer lavorano sull’elettronica, esattamente come lavorano sull’elettronica quelli di Paik o dei Vasulka, per citare solo due casi tra i più famosi. Tuttavia, col digitale che costituisce un’evoluzione dell’elettronica, le possibilità di “detournare” la tecnologia sono diminuite in misura drammatica, anzi probabilmente si sono eliminate e questo colpisce la sperimentazione in genere, sia musicale sia audiovisiva. È qualcosa di paradossale perché allo stesso tempo il lavoro con i media tecnologici si è semplificato enormemente, ma forse è proprio questa iper-semplificazione che ha ridotto le possibilità di un intervento creativo alla base, cioè sulla tecnologia stessa.

Cosa comporta l’adesione ad un modello di comunicazione digitale?

A mio avviso c’è molta confusione sul digitale. Mi sembra che in genere nella comunicazione si tenda a sovrapporre la tecnologia in sé con uno dei suoi effetti, la possibilità di un’interazione online, riguardo alla quale, a mio avviso, c’è molta mistificazione: un conto è poter postare dei contenuti personali su una piattaforma, un altro invece è la loro reale condivisione. È questo l’aspetto che secondo me è molto gonfiato nella percezione comune: sembra che affermare una propria semplice adesione (i “like”) sia una condivisione. La condivisione effettiva, invece, dovrebbe permettere l’apertura di un dialogo allargato, un confronto/ scontro tra opposti pareri e visioni, capace di generare processi reali di soggettivazione. Oggi, a me sembra che al posto della crescita in senso personale e collettivo nel mondo reale, la possibilità di postare contenuti online sia una forma per affermare la propria esistenza, il proprio esserci da qualche parte. Di fatto, in questo modo l’idea di dialogo e confronto/scontro è stata ridotta a quella del plebiscito acritico e, soprattutto, non esce dalla rete, cioè non ha effetti sul mondo reale vissuto dalle persone.

In epoca ellenistica, dopo la parentesi callimachea del sentiero bagnato di rugiada (fondativa della poesia neoterica), il ritorno del poema epico (pensa alle argonautiche di Apollonio Rodio) prima, addirittura il romanzo (pensa alle Avventure di Cherea e Calliroe di Caritone) poi, ci mettono in contatto con una nuova lunghezza che sembra farsi strada grazie alla nuova abitudine di lettura del lettore. Pensi che l’attuale paradigma delle serie televisive (dove quel cinema che per ragioni di tempo non può trovare spazio nella sala cinematografica si riflette negli schermi dei laptop) possa segnare una tappa simile?

Perdonami, ma a me l’intrattenimento in generale e la narrazione in particolare proprio non interessano. Perciò, non seguo le serie come “fan”, anche se le guardo da lontano per analizzarne il linguaggio sul piano strettamente audiovisivo. Chiaramente, la visione su laptop o display, che è la fruizione più usuale di questi prodotti, ne ha modificato le forme linguistiche. Però, mi sembrano solo strategie commerciali, per affermare un prodotto e non innovazioni di tipo artistico. L’idea di intrattenimento che è alla base del cinema mainstream che si è affermato nel Novecento, è la stessa che è alla base delle serie tv.

Cosa può significare youtube in termini di archivio della memoria, e non di dispensatore di visualizzazioni

Un archivio non è un semplice luogo di conservazione, ma un luogo dove si fa ordine in merito a del materiale scelto e dove, perciò, si scarta molto. Non entra tutto nell’archivio. Youtube, invece, funziona sull’accumulo indistinto perché su questo si base la sua economia: più contenuti sono postati, più inserzionisti possono trovare spazio e quindi pagare per averlo. Anche il fatto che alcuni youtubber riescano a portarsi a casa dei guadagni fa parte di questa economia dell’accumulo indistinto. Tutto ciò, però, non ha nulla a che fare con l’idea di archivio. Il fatto che si possa pescare in modo indistinto da questo mucchio non significa che questo mucchio sia un archivio. Piuttosto, è una specie di discarica che si autoalimenta e dove finisce di tutto. Non dimentichiamo che il problema dei rifiuti oggi è il più grande problema che l’umanità ha di fronte e che deve risolvere a livello globale. Youtube ci mostra che i rifiuti non sono solo di tipo materiale come la plastica, ma anche di tipo immateriale come i dati che affollano il web e presto ci sarà un problema di sovraffollamento anche in rete.

Quale valore assume l’esperienza della videoarte dopo la rivoluzione del digitale

La video arte come tale è finita, anche se negli spazi dell’arte si vedono tantissimi audiovisivi. Col digitale, è tutto video, anche il cinema mainstream dell’industria cinematografica. Per fortuna, la forma audiovisiva è ormai da tempo una forma espressiva per l’arte e questo è un bene in sé. Nel migliore dei casi, quello che si vede negli spazi dell’arte è qualcosa che non è né cinema (nel senso del cinema di fiction), né video (nel senso del video che si vedeva negli anni Settanta). Nel peggiore dei casi, invece, si propone come una specie di cinema (sia fiction, sia documentario). A mio avviso, l’audiovisivo come forma d’arte dovrebbe proporre un tipo di “attenzione distratta” verso l’immagine-suono in sé che non costruisca storie nel senso classico, dovrebbe giocare sulla tridimensionalità dello spazio, in ogni caso dovrebbe presentarsi come una forma in collisione con l’idea diffusa del “film” come narrazione, quello veicolato dal cinema di fiction che si è imposto nel Novecento e che oggi ricompare sia nelle serie tv, sia nella maggior parte dei contenuti di youtube, anche se in superficie il linguaggio in questi ultimi casi ha subito alcune modifiche.

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Antonio Mastrogiacomo vive e lavora tra Napoli e Reggio Calabria. Ha insegnato materie di indirizzo storico musicologico presso il Dipartimento di Nuovi Linguaggi e Tecnologie Musicali del Conservatorio Nicola Sala di Benevento e del Conservatorio Tito Schipa di Lecce. Ha pubblicato “Suonerie” (CD, 2017), “Glicine” (DVD, 2018) per Setola di Maiale. Giornalista pubblicista, dal 2017 è direttore della rivista scientifica (Area 11 - Anvur) «d.a.t. [divulgazioneaudiotestuale]»; ha curato Utopia dell’ascolto. Intorno alla musica di Walter Branchi (il Sileno, 2020), insieme a Daniela Tortora Componere Meridiano. A confronto con l'esperienza di Enrico Renna (il Sileno, 2023) ed è autore di Cantami o Curva (Armando Editore, 2021). È titolare della cattedra di Pedagogia e Didattica dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria.

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