Milano, passeggiata museale, pt. 3 Da Arte come rivelazione, opere dalla collezione Agrati a Palazzo Sforzesco da Ghirri alla Triennale a Bruno di Bello da Marconi

Arte come rivelazione. Opere dalla collezione Luigi e Peppino Agrati

La metropolitana d’Italia ha sprovincializzato lo stivale, regionalizzando il traffico di passeggeri tra sponde mediterranee e pianure padane. In altre parole, grazie a collegamenti costanti e giornalieri tra Milano e Napoli, centinaia di passeggeri si muovono con priorità assoluta su convogli intercity e regionali al solo costo di un prezzo spaziale.
Viaggio da prenotarsi almeno 3 mesi prima per usufruire delle promozioni, ogni tanto va visitata Milano, per vedere come sta, per sapere cosa dice. La anima, infatti, un costante fermento museale, quasi mai a marca MiBACT: musei ce ne sono, anche tanti, e costano tutti cari. Mi fa un po’ ridere il parlare di riduzione quando lo sconto è di un solo euro: forse asseconda una politica alla McDonald’s, quando il debito pubblico è risanato da misure salva-euro. Bando alle ciance, senza timidezza mi rivolgo all’ufficio informazioni – proprio quello della galleria next to Piazza Duomo – e chiedo cosa poter visitare gratuitamente. “C’è una roba che fa al caso mio”, riferiscono.

Devo andare al palazzo della Scala, sede di una Galleria d’Italia di quelle prestigiose. “Dio benedica le banche”, sogghigno.

La collezione dei fratelli Agrati (Arte come rivelazione. Opere dalla collezione Luigi e Peppino Agrati, a cura di Luca Massimo Barbero, con il coordinamento generale di Gianfranco Brunelli; è in corso fino a domenica 19 agosto) si mostra gratuitamente al pubblico: c’è tantissima roba di particolare rilievo che permette di misurare tangibilmente la produzione artistica recentemente contemporanea, di quelle in grado di farsi spazio nella storia.

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Arte come rivelazione. Opere dalla collezione Luigi e Peppino Agrati

Non si può parlare di musei senza partire dalle collezioni; allora questa proposta milanese diventa fortemente didattica nel darci modo di pensare ai musei come luogo di raccolta di pezzi da mettere insieme lontani dalla privata intimità. Ogni opera gode di una buona risonanza spaziale, di una pannellistica fortemente didattica con indicazioni dell’autore e della sua poetica, tra indicazioni essenziali e brandelli autoriali.

Pistoletto, Gnoli, Merz, Crhisto, Melotti; Pino Pascali e le sue sculture (Balena), Mario Schifano (Grande pittura), Alighiero Boetti e I vedenti – intreccio di policromia e ritmo; Jannis Kounellis e la sua rosa nera (Natura artificiale) fino ai Segnali stradali! Giulio Paolini e la sua indagine materica che arriva a Jasper John, quale eccitante elogio della citazione! Blu di Yves Klein, che ci riconduce ad una dimensione puramente contemplativa. Concetti spaziali, buco e taglio: la pittura sta nell’idea, ricorda Lucio Fontana, di cui ci sono esposti Concetto spaziale, Teatrino, Concetto spaziale, attese fino a Natura. Al centro campeggiano lavori di Fausto Melotti tra cui Deposizione, leggerezza filiforme da rileggere a partire dalle Lezioni americane di Calvino.

Poi c è la sala con i ritratti dei padroni di casa, i fratelli Agrati, rabdomanti dell’arte a guisa di un folle amore – come da una scultura di Melotti che titola il catalogo di Germano Celant coi ritratti di Bernabei.

Cambio totalmente sala e trovo affiancati Luciano Fabro – con la sua tautologia del cielo e le sue costellazioni – e Piero Manzoni ed un suo singolare acrhome – nuvole in fibre naturali o artificiali. E poi i 36 quadrati che fanno il quadrato in alluminio percorribile di Carl André, con i diversi riflessi della luce e infine quell’amico di Manzoni, quel Castellani che col suo dittico in superficie bianca fa del calcolo una prassi operativa prima che una indagine sulla prospettiva. Campeggia il triplo Elvis di Warhol. Poi Basquiat e il suo Alchimista. E Robert Raushenbergtrasmettitore argento glut neapolitan, con glut come eccedenza – fino a Blu exit.

Scopro Edward Rusha e i suoi due fogli macchiati di edera e tabacco, passo per l’appoggiare di Richard Serra e arrivo alla definizione di aria quindi di arte come idea, come idea del sempre concettuale Kosuth. Mi imbatto nell’opera del land artist Heizer, il suo tramonto in una diapositiva colori da fiberglass, fino all’Ononimo per 11 di Alighiero Boetti. E poi: Dan Flavin e le sue lampade al neo prodotte industrialmente; e i lavori del milanese Vincenzo Agnetti che traducono l’interesse degli Agrati per il versante concettuale e minimale delle ricerche artistiche

Mi avventuro poi nel cantiere del Novecento di Galleria d’Italia, al suo secondo allestimento; e anche qui tanta roba, a configurare una didattica di un novecento del contemporaneo in un cantiere che sembra investire solo il così a noi prossimo difficilmente digeribile rispetto ad una figurazione se si mantiene più vicina alla rappresentazione del reale. E concludo la mia visita tra le sale vuote, spazializzate dal suono di una musica da atmosfera che vuole ravvivare il tempo della mia passeggiata museale, ma piene di opere.

Il giorno dopo mi attende il Palazzo sforzesco, quel museo civico che mette insieme così tanto che i musei puoi consorziarli in un unico biglietto: non è che puoi godere di una sola cosa, non sia mai. O tutto o niente. Quindi, mettiamo insieme gli strumenti musicali e la pietà Rondanini, l’area archeologica e la pinacoteca, il museo dell’arredamento e delle arti applicate. Un biglietto per visitarli tutti. E così corri il rischio di vedere troppo e non ricordare più niente se non l’esperienza di averli attraversati. Il personale relativamente amichevole, molto annoiato fa pratica del tempo perso tra smartphone e smartphone. Sale libere adibite essenzialmente a vetrine, tra gli strumenti musicali il mio interesse si precipita verso la ricostruzione dello studio di Fonologia: purtroppo non funziona niente se non il video che scorre – tra gli intervistati Giovanni Allevi, a marcare la distanza tra la buona idea e la cattiva gestione della stessa. Un museo che sa di vecchio, ma gestito bene. Così come tutti gli altri, forse quello più giovane è quello dell’arredamento, mentre la pinacoteca resta davvero arida, senza una buona pannellistica che incoraggi una divulgazione del bene culturale. Chiudo con la pietà Rondanini, che vive isolata da tutto il resto, privilegio dei pezzi di valore posti a risplendere di luce propria.

Continuo e vado alla Triennale, poco distante. Stavolta posso decidere cosa vedere: mi interessa particolarmente la mostra temporanea dedicata a Luigi Ghirri (fino al 26 agosto 2018, a cura di Michele Nastasi; cit.: La mostra mette in luce l’importanza dell’opera di Luigi Ghirri nell’ambito dell’architettura, attraverso la sua decennale collaborazione con la rivista “Lotus International”).

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Luigi Ghirri. Il paesaggio dell’architettura

Luigi Ghirri è fotografo del paesaggio italiano dalla rara potenza: il suo riflettere sullo spazio anima la mia attenzione, il prestigio dei suoi scatti dedicati alle architetture merita il posare di uno sguardo interessato. Quindi, apprezzo molto l’allestimento sul profilo visivo: sono poste in rilievo sull’altura di un parallelepipedo di legno, la didascalia a matita regala un tocco di umanità alla collezione, il materiale posto in vetrina per via orizzontale orienta la conoscenza del rappresentato. Resto meno contento del profilo sonoro. Al fianco di questa disposizione fisica campeggia una proiezione a mezzo digitale degli scatti del fotografo emiliano ritmata dal suono del cambio di diapositiva: peccato ci siano in azione 5 proiettori, che non ci sia mai silenzio e che la fruizione di un’opera abbisogna di un giusto ambiente anche sonoro. Così, il rischio fastidio è alle porte. Or bene, capisco la scelta di segnalare con il suono il cambio di immagine – altrimenti sembrerebbe di quelle tristi animazioni da visualizzatore di immagini sul pc – ma gli spazi devono esser misurati anche in base alla loro resa acustica, e non possono esser contigui due così diversi, uno così delicato, l’altro così misurato.

E poi mi raggiunge Maurizio Pisati e mi porta a vedere la Bruno di Bello alla galleria Marconi, di via Todino (fino al 27 luglio 2018) Allora mi ritrovo in tutt’altro contesto, in tutt’altro mercato, in tutt’altro.

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Bruno Di Bello alla Fondazione Marconi

E sono affascinato dal coraggio processuale di Di Bello, dalla sua attenzione al dettaglio nelle sue opere storiche quanto alla resa cromatologica dei suoi ultimi lavori, da lasciarti mozzafiato per accuratezza e dettaglio dei colori. Quel video di Paci Dalò con i pantoni tra le mani dell’artista e il b/n che lo riprende sono indicativi di questo orientamento, dove la ricerca si pone in assonanza con la pratica. Insomma, bella storia.

Milano, città europea, ci sai fare con i musei: mi dai l’idea di averli sapientemente caratterizzati a partire da una dimensione quotidiana.

 

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Antonio Mastrogiacomo vive e lavora tra Napoli e Reggio Calabria. Ha insegnato materie di indirizzo storico musicologico presso il Dipartimento di Nuovi Linguaggi e Tecnologie Musicali del Conservatorio Nicola Sala di Benevento e del Conservatorio Tito Schipa di Lecce. Ha pubblicato “Suonerie” (CD, 2017), “Glicine” (DVD, 2018) per Setola di Maiale. Giornalista pubblicista, dal 2017 è direttore della rivista scientifica (Area 11 - Anvur) «d.a.t. [divulgazioneaudiotestuale]»; ha curato Utopia dell’ascolto. Intorno alla musica di Walter Branchi (il Sileno, 2020), insieme a Daniela Tortora Componere Meridiano. A confronto con l'esperienza di Enrico Renna (il Sileno, 2023) ed è autore di Cantami o Curva (Armando Editore, 2021). È titolare della cattedra di Pedagogia e Didattica dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria.

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