Parigi val bene un museo. Gordon Matta Clark al Jeu de Paume

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Gordon Matta Clark

32 ore hanno diviso la partenza dall’arrivo, quando raggiungere Parigi si è trasformato in una corsa a ostacoli. L’aeroporto, diventato sala d’attesa, ha ospitato a intermittenza letture, improperi, telefonate, scarsi tentativi di chiudere occhio. La funzione diaristica si addice relativamente ad uno scritto al sapor di report, così non mi dilungo per tenere fede al mio intervento: Parigi val bene un museo. Quello che ho scelto per i lettori.

Mi va di raccontarvi, infatti, dello Jeu de Paume, questa galleria nazionale sita a Place de la Concorde, uno spazio espositivo d’arte contemporanea e di fotografia piuttosto grande all’estremità occidentale del Giardino delle Tuileries.

Non vi sto a dire che lì vicino – suo relativo simmetrico – sta l’Orangerie: lo sapete già.

Al Jeu de Paume ci andate per ammirare l’allestimento insieme all’opera, l’Arte insieme all’Architettura. In questo caso, chi scrive ci è capitato per sbaglio: era troppo presto per Jeu de Paume e l’ha trovato passeggiando alle 10 del mattino in attesa di raggiungere più tardi la mostra temporanea che lo aveva fatto muovere di buona lena.

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Gordon Matta Clark

Appena sceso alla fermato Metro di Belleville mi accoglieva infatti un pannellone pubblicitario, di quelli enormi: Gordon Matta Clark a JdP (fino al 23 settembre 2018).

 “Fantastico”, pensai. Non me lo aspettavo proprio: l’avevo studiato in Accademia, nel corso tenuto da Viviana Gravano, alla dicitura tuttounprogramma “teoria e metodologia della storia dell’arte”, decisamente saporito, tra incursioni psicogeografiche e azionismo sociale metropolitano passando per audiowalk e fotografia.  A sostegno della lezione frontale avevamo da leggere un testo edito da Mimesis, dal titolo Paesaggi attivi. Saggio contro la contemplazione, il cui sottotitolo, L’arte contemporanea e il paesaggio metropolitano, indicizza al massimo grado il percorso dell’autrice Gravano. Il secondo capitolo – La (de)costruzione architettonica: Gordon Matta Clark – avrebbe carsicamente preparato il terreno al mio passeggiare per le stanze bianche del museo. Semplice ma esauriente la pannellistica, opportunamente disposti i video-documenti dell’artista statunitense all’opera, mi imbatto in lavori a me sconosciuti, come ad esempio quelli non strumentalmente architettonici, così come il materiale archivistico di prima mano.

Un buon numero di persone frequentava le stesse sale: vuoi la curiosità di una mostra importante, vuoi per il richiamo dell’artista, vuoi perché ripercorrere Parigi a partire dai suoi interventi si accordava alla memoria della città. Insomma, molte energie erano state spese per allestire questo spazio in memoria dell’opera e dell’uomo Matta-Clark.

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Gordon Matta Clark al Jeu de Paume, Parigi

Gordon Matta-Clark (New York, giugno 1943 – agosto 1978), figlio di due artisti, Anne Clark, americana, e Roberto Sebastian Echaurren Matta, cileno, e fratellastro di un altro artista, l’italiano Pablo Echaurren, lavora a partire dall’unicum dell’azione architettonica per arrivare all’alto tasso di riproducibilità della sua documentazione: al fondo alberga una intenzione fortemente collettivistica da ricostruire nel rapporto con la vita quotidiana (si pensi a Food, il ristorante dell’arte e opera messo su nel 1971 con Carol Godden e Tina Girouard).

Apprezzo il suo sorriso nelle interviste, la capacità di ribaltare la domanda nella risposta, lo spirito antiaccademico di cui trasuda la sua pratica, tanto verbale quanto artistica. Matta-Clark insomma prende le forbici per dare una spuntatina alle nostre abitudini così da farcele intendere per un attimo, quanto dura l’attimo della conoscibilità?

Ci sono tracce di Conical Intersect (1975), suo intervento next to Centre Pompidou: proprio lì mi fermo un buon quarto d’ora per sfogliare prima il costoso catalogo dalla copertina arancione stampato in Italia, per fissare altri suoi lavori su parete poi.

L’ambientazione sonora delle sale è improntata alla non belligeranza delle informazioni, che così arrivano precise anche grazie al supporto dei sottotitoli in inglese. Sto fatto che il pubblico del museo non parla solo la lingua comune dell’arte deve essere declinato in modo da intercettare più visitatori possibili. La risposta della ristorazione sta appunto nello specialismo, stavolta della cucina orientale, ormai patrimonio alimentare.

Ci sono piccole sale pedagogiche dedicate alla didattica dell’arte, molto colorate e arredate con schermi di almeno 17” targati Mac. Bagni di ultima generazione con quell’asciugamani elettrico che sembra di stare in formula 1 per il suono che emette. Una sala in basso propinava ad intermittenza video di autori diversi, mi accoglieva nella perplessità una volta saggiata la succosità gastrica dell’opera. Al secondo piano teneva banco il tema dei migranti. Insomma, soliti temi del contemporaneo tra la cronaca e l’intervento.

Lasciavo perplesso la struttura una volta fatta esperienza del bookshop, lì dove i prezzi da autogrill ti costringono necessariamente a discutere delle parentele tra musei e luoghi di transito da trasporti. Dove una matita costa 6 euro, Parigi val bene un museo.

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Antonio Mastrogiacomo vive e lavora tra Napoli e Reggio Calabria. Ha insegnato materie di indirizzo storico musicologico presso il Dipartimento di Nuovi Linguaggi e Tecnologie Musicali del Conservatorio Nicola Sala di Benevento e del Conservatorio Tito Schipa di Lecce. Ha pubblicato “Suonerie” (CD, 2017), “Glicine” (DVD, 2018) per Setola di Maiale. Giornalista pubblicista, dal 2017 è direttore della rivista scientifica (Area 11 - Anvur) «d.a.t. [divulgazioneaudiotestuale]»; ha curato Utopia dell’ascolto. Intorno alla musica di Walter Branchi (il Sileno, 2020), insieme a Daniela Tortora Componere Meridiano. A confronto con l'esperienza di Enrico Renna (il Sileno, 2023) ed è autore di Cantami o Curva (Armando Editore, 2021). È titolare della cattedra di Pedagogia e Didattica dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria.

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