Le corps utopique. Topie Impitoyable. Luoghi spietati architettura, corpi e altre storie

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Con Topie Impitoyable l’autore Léopold Lambert rende omaggio alla frase di esordio pronunciata nel 1966 da Michael Focault durante una conferenza radiofonica per France Culture, titolata Le corps utopique.

Luoghi spietati è un libro che ognuno dovrebbe leggere. Non necessariamente chi ha che fare con il mondo della progettazione, anzi prescinde da tutto questo; è un libro che fa riflettere tutti: dalla percezione del proprio corpo alla scala urbana e dall’interazione e relazione che c’è nel mondo fisico e cognitivo tra gli elementi corpo, abbigliamento, muro, strada, città. E’, insomma, un libro politico, sociale, filosofico.

Partiamo da concetti che creano fascinazione. Non obbligatoriamente sono rappresentazione univoca della lettura dell’architettura, ma ne rappresentano un interessante aspetto. Esempio: viene enunciato che l’architettura sia intrinsecamente violenta. Questo deriva dal fatto che la sua principale finalità è quella di dividere gli spazi, e quindi di organizzare spazialmente i corpi. Ciò può essere anche vero, a mio avviso, ma è solo parte della sua funzione e ne rappresenta solo un aspetto storico successivo, dal momento che l’architettura nasce come archetipo primario di rifugio e poi in seguito assume carattere politico e sociale e di conseguenza di controllo e di confinamento delle masse umane organizzate in tessuti abitativi o strutture nate dichiaratamente per segnare confini geo-politici o sistemi giuridici invalicabili.

Le caratteristiche di controllo dello spazio fisico e politico, che organizza i corpi in contenitori umani con gerarchie e funzioni diverse, dopotutto non è molto diverso da quello che avviene in natura anche se ragionevolmente non c’è una volontà tesa a plasmare una società assoggettata a poteri politici. Invero uno dei tormenti dell’autore è rappresentato dalle mura, che non esclusivamente devono essere mura politiche, come ad esempio il muro di Berlino, o quello reticolare che divide la frontiera degli Stati Uniti dal Messico, o la barriera di separazione lunga oltre 700km  eretta da Israele in Palestina. Il muro è anche quello rassicurante del salotto di casa dove probabilmente vi sentite protetti e al sicuro: è quello il modello originario del rifugio. Anche quel muro, secondo Lambert, rappresenta una violazione di libertà perché una linea astratta una volta estrusa diventa un elemento solido in cui siete rimasti imprigionati. L’unica soluzione per uscire da questo spazio chiuso è aprire dei sistemi di comunicazione con l’esterno: vani, porte di comunicazione (pure i SocialNetwork?!) in un altro luogo.

Ma l’impermeabilità di due corpi fisici come il corpo umano e un muro avviene anche altrove dal mondo normato. Però, dal mio punto di vista, anche in natura ci sono porte: mettono in comunicazioni ambienti diversi; mi spiego meglio: immaginate vallate separate da massicci montuosi…, la porta naturale sarà un valico. Non lasciamoci impressionare dal parossismo ossessivo di sentirci di corpi imprigionati in un mondo 2D come in una sorta di Flatlandia (romanzo fantastico di Edwin Abbot) al punto in cui l’autore riesce persino ad affermare che “anche lo spessore della linea è uno spazio nel quale viene esercitato un potere fascista sui corpi. Un corpo può essere imprigionato all’interno dello spessore di una linea, come ad esempio accade ai corpi murati vivi….”. Non esageriamo: la fisica è fatta da limiti ma anche da legami. Immaginate che cosa accadrebbe se i neutroni  i protoni rompessero il muro del nucleo e gli elettroni decidessero di sottrarsi al vincolo che li tiene legati all’atomo; allora perché noi abitanti di un mondo fisico non dovremmo sottostare alle sue “leggi fasciste”? Questo è un Universo di relazioni, di cause ed effetto. Non direi che viviamo in un “Universo fascista”, ma semplicemente che esistono delle leggi naturali a cui tutti siamo sottoposti. Le particelle subatomiche in primis.

Torniamo ai corpi. Corpi che si muovono “spesso immersi in una composizione spaziale complessa di mura e pareti che possiamo generalmente chiamare città”. I corpi comunque e dovunque collocati assumo un concetto di unicità spaziale: non si può essere in due posti diversi nello stesso momento (per ora!), e così essi assumono una presa di posizione “politica”. Così, aldilà di chi sceglie coscientemente di scendere in piazza per manifestare o occupare una piazza, anche andare a fare la spesa o decidere di prendere il sole in un parco pubblico opera una scelta “politica”. Bene. Partiamo dal concetto di performività elaborata dalla filosofa post-strutturalista statunitense  Judith Butler (sulla traccia di Focault) tesa a normare i corpi e a descriverne il genere attraverso la reiterazione dei comportamenti.

Così gesti e atteggiamenti tipici dei corpi che ce li fanno distinguere, ad esempio per categorie sessuali, sociali, etniche etc…, ci permettono di leggere la loro performività nello spazio che occupano e come lo occupano “evidenziando le relazioni di potere che avvengono all’interno di una società”. Questa presenza e tale modo di essere possono essere letti, secondo l’autore, anche rifacendosi ai danzatori e coreografi contemporanei come Pina Baush e William Forsythe, che sostengono che il corpo, in effetti, non smette mai di danzare. Ogni singolo movimento in ogni singolo istante corrisponde ad una interazione fisica con lo spazio in funzione di una determinata funzione. Oltre il corpo e oltre la sua fisicità c’è l’epidermide per lo più ri-vestita di una seconda pelle, ovvero l’abito. Recita il popolare proverbio che “l’abito non fa il monaco”.

Questo è vero soprattutto se a volte un determinato corpo normato, muovendosi ed interagendo con lo spazio con determinate reciprocità  in un dato ambiente, rischia la vita. Ancora più vero se l’abito, in questo caso è specifico: è una gonna, è lo hijab (o hijab) l’hoodie. Questo è la felpa con il cappuccio, capo di abbigliamento oggi molto adottato specie nel look giovanile e resistenziale. La sua origine si la fa risalire  al medioevo, diffusa soprattutto tra i monaci cristiani e probabilmente introdotta dopo la conquista dei normanni in Inghilerra nel XII secolo; in tempi moderni viene adattata nella versione di felpa (prodotta dalla Champion) – come la conosciamo noi – dalla classe operaia newyorchese degli anni ’30 per essere consacrata definitivamente negli anni 70 dalla cultura Hip Hop e diventare indumento di massa a partire dai primi anni ’90.

Ebbene: l’associazione semiotica di una hoodie nera (abito – colore) indossata da un giovane (categoria)  afroamericano (corpo) in un determinato luogo (spazio – strada – muro), in questo caso un centro residenziale di Sanford Florida, fece apparire al vigilantes George Zimmerman il ragazzo Martin, che le incarnava/riassumeva, come una precisa minaccia. Il risultato fu che, dopo un breve alterco tra i due, Zimmermann fece fuoco e Martin e la sua hoodie erano, pochi istanti dopo, stesi sull’asfalto. Non solo. Zimmermann fu assolto legittimando l’interpretazione che egli avesse avuto vari elementi (plausibili) a condurlo a pensare che Martin – di fatto la vittima – fosse effettivamente una minaccia a causa dalla relazione degli elementi prima elencati.

Questa inestricabile ragnatela di relazioni esistenti tra corpo, abito, muro, strada, città Lambert ce li restituisce in una cinica, distopica atmosfera che genera precisamente luoghi spietati. Ma non temete: la bellezza, l’armonia, la speranza e gli orizzonti aperti appartengono ancora a questo mondo nonostante i muri della vostra “casa-rifugio” che, secondo Lambert, sembra debbano imprigionarvi e creare solo separazione e conflitti sociali e politici.

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Paolo Di Pasquale si forma studiando prima Architettura poi Disegno Industriale a Roma, specializzandosi in Lighting design. Nel 2004 è co-fondatore dello STUDIOILLUMINA, dove si occupa principalmente di Architectural Lighting Design e Luce per la Comunicazione: lo Studio progetta e realizza allestimenti espositivi e museali, ideazione della luce, corpi illuminanti, scenografia notturna - nel settore della riqualificazione urbana e in progettazione di arredi (porti turistici, parchi, giardini, piazze etc.)-, piani della luce per alcuni Comuni italiani e spettacoli di luce. Nel 2007 fonda lo Studio BLACKSHEEP per la progettazione di architettura di interni e di supporto alla pianificazione di eventi, meeting e fiere. E' interessato alla divulgazione della cultura della luce e del progetto attraverso corsi, workshop, convegni e articoli. Ha insegnato allo IED e in strutture istituzionali. E’ docente di Illuminotecnica presso l’Istituto Quasar - Design University Roma di nel corso di Habitat Design e in quello di Architettura dei Giardini. E' Redattore di art a part of cult(ure) per cui segue la sezione Architettura, Design e Grafica con incursioni nell'Arte contemporanea. Dal 2011 aderisce a FEED Trasforma Roma, collettivo di architetti romani che si interroga sul valore contemporaneo dello spazio pubblico esistente, suggerendone una nuova lettura e uso con incursioni e azioni dimostrative sul territorio metropolitano.

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