Questo articolo è nato, in una versione differente, per la mia rubrica Pionieri, quasi per caso. Lo riproponiamo qui oggi, aggiornato, per ricordare una celebrazione: il brevetto italiano per un “dispositivo magneto-dinamico, applicabile a strumenti a plettro in genere ed a chitarre in particolare, per amplificare il suono in collegamento con la presa fono di apparecchi radio” concesso con il n. 462480 il 21 marzo 1951 ad Ettore Pace.
La storia, questa storia, racconta dell’invenzione della chitarra elettrica e di un primato, tutto italiano, seppure surclassato – in comunicazione, soprattutto – da quello americano, e indirettamente torna sulla necessità di contenere l’eccesso di esterofilia di un Paese, l’Italia, pieno di talenti e pionierismo ma che, nonostante ciò, in troppi ambiti ha permesso una colonizzazione interna angloamericanocentrica.
La narrazione che segue sottolinea, anche il fascino e l’importanza che accompagnano le vicissitudini personali, a volte assolutamente ordinarie, di individui che, per un’intuizione, trasformano una passione e un sogno in realtà che diventa bene condiviso, ovvero: eredità a beneficio di tutta la collettività.
Il fuoco di Prometeo si può manifestare anche nelle cose apparentemente piccole, si fa appropriazione comune e può diventare, poi, un fenomeno culturale e parte della Storia – stavolta con la maiuscola –e, nei casi più eclatanti, destino dell’umanità.
Il primo avvio di questo approfondimento parte dal mio amico Alberto M., che nella sua vita parallela è un musicista e ancora suona il basso, che ad un certo punto della nostra conversazione mi dice “….ma lo sai che la chitarra elettrica è nata in Italia negli anni ‘30 inventata da un tale Airoldi? … Mi sembra fosse di Novara…”.
Io, che pensavo alle prime intuizioni del pick up elettromagnetico di Adolph Rickenbacker come primato assoluto e a Leo Fender e Lester William Polfus in arte Les Paul come ai due antesignani incondizionati di questo strumento che ha cambiato il modo di suonare e ha inventato stili di musica innovativa e una nuova cultura a partire dagli anni ‘50!
Così, è iniziata la mia ricerca negli archivi di un’Italia prebellica e concentrata a Galliate un piccolo comune in provincia di Novara. La prima cosa che noto di questa località è che ci sono nate circa una trentina di personalità più o meno conosciute – che vanno da artisti, a piloti storici di formula uno, a calciatori, uomini politici, generali fondatori del corpo degli Alpini, architetti, filosofi, medici medaglie d’oro per aver debellato epidemie – ma che tra questo ricco panorama di eccellenze manca proprio il nome di Valentino Airoldi, cittadino sconosciuto ai più almeno fino a qualche anno fa, quando l’Associazione Culturale a lui intitolata, dal 2008 ha celebrato il geniaccio per qualche edizione del festival Master Guitar: a luglio, concerti, incontri e workshop riservati a tutti gli stili e le declinazioni di quello che è oggi il più popolare e versatile fra gli strumenti musicali.
La kermesse ha avuto luogo sino alla quinta edizione, nel 2012, e per continuare le attività nel 2013 ha attivato una campagna di Crowfounding senza che questa giungesse, purtroppo, a buon fine. Attualmente, ogni altra notizia relativa si può catalogare alla voce: aggiornamenti in corso (www.comune.galliate.no.it).
Ciò detto, della storia personale del signor Airoldi è ancora pressoché impossibile trovare note biografiche più approfondite e da quel primo articolo da me firmato su questo Sito, nel settembre 2012, nulla o quasi è cambiato in tal senso.
Quel che indicai allora e posso raccontarvi oggi è che si sa che negli anni ‘30 Airoldi lavorava come tecnico presso la centrale telefonica della Siptel di Novara e che aveva un’immensa passione per la musica e le serate con gli amici passate nelle osterie; la sua era una vita normale, in un’Italia del Ventennio che si avviava all’industrializzazione e all’ammodernando ma dove la tradizione rurale era ancora molto forte, in un’epoca in cui si stava creando un improbabile quanto inutile Impero nell’Africa Orientale e con gli echi della guerra ancora relativamente lontani, così come lo era la democrazia.
In questo contesto, Airoldi doveva avere una particolare esigenza: nelle serate in cui si esibiva, aveva bisogno che il suono della sua chitarra o del suo mandolino venisse sentito distintamente da più persone possibili. Così, con la sua esperienza di tecnico della compagnia telefonica, iniziò ad assemblare vecchi ricevitori telefonici fino a costruire un dispositivo costituito da una calamita e da due bobine rilevatrici che dovevano convertire la vibrazione delle corde in suono.
Nel 1937 installò tale elementare apparecchiatura su di un manico di chitarra senza cassa, allacciò i capi delle bobine alla presa audio della radio da cui finalmente si udì quel suono amplificato. Il congegno fu poi applicato anche a un mandolino, con gli stessi buoni risultati. Quindi, signore e signori, ecco a voi: la prima rudimentale ma funzionante chitarra elettrica a cassa piena, a corpo solido (Solid Body)!
A testimonianza dell’originalità di questa invenzione, che indubbiamente ha anticipato i più popolari colleghi d’oltreoceano, esiste una fotografia che ritrae l’Airoldi in posa – e senza neanche troppa convinzione – mentre mostra una chitarra e un mandolino Solid Body su “La Gazzetta della Sera”. Il giornale reca la data di mercoledì 29 settembre 1937. Il primato di Valentino Airoldi è indiscutibile, suffragato da questa prova mediale, cartacea, editata e diffusa.
Come spesso capita al genio italiano, tranne nei rari casi come quello di Guglielmo Marconi, che è stato un ottimo promotore e manager di se stesso, la nostra dimensione umana e provinciale di italiani – per carità: non per questo deprecabile – spesso ci (auto)emargina dalle vette di popolarità e di successo planetario che hanno ottenuto, invece, altri all’estero, con onore e gloria, nonché, in alcuni casi, anche imperi economici.
Insomma: è così che il destino di questa invenzione rimase confinato localmente. Purtroppo, la chitarra elettrica di Valentino Airoldi non trovò nessuno interessato ad un suo sfruttamento commerciale, pur se il suo inventore ottenne il suo scopo che, molto probabilmente, non era quello di arricchirsi ma, abbiamo detto, di suonare con gli amici e farsi ascoltare dal maggior numero di persone possibili.
Ma negli Stati Uniti, di lì a pochi anni, nel 1941, qualcun altro progettò un suo particolare prototipo di semi Solyd State: Les Paul (pseudonimo di Lester William Polfuss, nato a Waukesha nel 1915 e morto a New York City nell’agosto 2009) creò per la Epiphone la The Log.
Lo strumento era sostanzialmente una chitarra acustica attorno a un blocco di legno massiccio ma presentava ancora problemi legati al feedback.
Il passaggio successivo fu ratificato nel 1946 da Paul Bigsby, estroso costruttore di motocicli passato a congegnare chitarre, e Merle Travis, suo amico; questi realizzano una chitarra molto innovativa, perfezionando lo strumento di Les Paul in più parti, dandogli un’impostazione asimmetrica per raggiungere più facilmente il ventesimo tasto, dispongono le chiavette dell’accordatura solo sulla parte superiore della paletta e introducono il “ponte tremolo” con la leva, la cui corsa è contrastata da un’asta metallica.
Sono, questi, dettagli tecnici forse di difficile comprensione per chi non è del settore ma assolutamente fondamentali per gli addetti-ai-lavori e per lo sviluppo della chitarra elettrica. Sviluppo a cui altri contribuirono, passo dopo passo.
Così, nel 1948, toccò a Leo Fender, tecnico progettista di amplificatori, dare una svolta definitiva al tutto, creando la Broadcaster; era una chitarra con due pick¬up single coil miscelabili e con il corpo pieno, in legno massiccio, che annulla completamente le risonanze indesiderate e aumenta il sustain delle corde, estendendo il concetto di chitarra Solid Body fino a raggiungere successivamente la perfezione con il modello Telecaster, che viene prodotto ancor oggi dalla Fender, azienda che porta il suo nome.
Vale però ancora la pena di soffermarsi sulla singolarità pionieristica del fenomeno italiano in questo settore.
Stavolta siamo nel 1950, nell’Italia post-bellica della ricostruzione, di Alcide De Gasperi, del romanzo La pelle di Curzio Malaparte messo all’Indice tra i libri proibiti dalla Chiesa, di Nino Farina che vince il primo campionato di Formula 1 su Alfa Romeo e dell’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno: tra alti e bassi, con le sue tante contraddizioni, il nostro Paese si sta comunque ricostruendo ed evolvendo.
Così, in un laboratorio della Capitale, dell’ancora popolare rione di Trastevere, Ercole Pace, detto, alla romana, Cesare (Roma: 28 settembre 1906 – 9 giugno del 1983) un uomo di enorme talento e di poche parole, stava lavorando già da qualche tempo ad un dispositivo universale da applicare a strumenti a corde per ottenere un suono amplificato “in collegamento con la presa fono di apparecchi radio”. Lo stesso anno richiede un brevetto, poi concesso con il n. 462480 il 21 marzo 1951: anche qui, la prova è accertata dai documenti – dei quali uno stralcio è nell’incipit di questo articolo – ed è quindi indiscutibile.
La biografia di Cesare è sicuramente più ricca e prestigiosa del suo collega di Galliate. Nato in una famiglia numerosa, secondo tra gli otto fratelli, era probabilmente il più animato da interessi culturali, aspirazioni intellettuali ed etiche; durante la gioventù, fu fervente antifascista, per questa ragione arrestato più volte e detenuto nella cella adiacente a quella di Giancarlo Pajetta di cui era amico e in seguito insignito del riconoscimento ufficiale di perseguitato politico dall’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti.
La carriera di Cesare iniziò come elettricista presso l’azienda tranviaria di Roma, l’ATAG (l’attuale ATAC) ma le sue aspirazioni, come precedentemente affermato, erano ben diverse, considerando, anche, che lasciò l’azienda e quel lavoro sicuro in favore di quello del palcoscenico, ricoprendo il ruolo di coordinatore delle luci al Teatro dell’Opera.
Ritornando al suo brevetto, il dispositivo in oggetto differiva dall’analoga invenzione oltreoceano di Leo Fender, di due anni prima (di cui Ercole Pace era comunque all’oscuro), in quanto il pickup applicato prevedeva un più elaborato avvolgimento per ogni magnete, anziché un unico avvolgimento per tutti i magneti come nel pickup di Fender, e adottando quindi una bobina per ogni corda. Cesare mirava a rendere il rilevamento delle sei corde più bilanciato ed accurato e sotto il profilo tecnico stiamo assistendo a due cose diverse: si tratta quindi di due differenti paternità.
Tanto geniale era questa invenzione che, ben presto, il suo brevetto fu imitato da altri, ma con piccole differenze per aggirare l’accusa di plagio: le distinte versioni furono quindi commercializzate da imprenditori con maggiori disponibilità finanziarie e così, purtroppo, anche la chitarra elettrica di Pace, o perlomeno il dispositivo elettromagnetico Made in Italy, che avrebbe potuto elettrificare uno strumento a corde, rimase appannaggio degli americani.
Va detto che questa fu solo una delle tante parentesi della vita di questo creativo romano, che parallelamente continuò la sua carriera di inventore così come quella nel Cinema; in questo campo, in continua espansione tanto da fare dell’Italia una cosiddetta “Hollywood sul Tevere”, divenne un ottimo ed apprezzato tecnico del suono per la Scalera Film, la Titanus e la Zeus, solo per citare alcune epiche strutture.
Lavorò con personalità e registi famosi come Eduardo De Filippo, Vittorio De Sica, Roberto Rossellini, Federico Fellini, Alberto Lattuada, Luchino Visconti, Guido Brignone, Amleto Palermi e con gran parte dei registi ed attori del cinema del Neorealismo italiano. Fu responsabile del doppiaggio dal 1947 al 1959 per gli otto film musicali interpretati dal celebre tenore Mario Lanza nel suo contratto con la Metro Goldwyn Mayer e risale anche a quel periodo la collaborazione con De Sica, Rossellini, Fellini, Visconti, Brignone e Palermi.
Cesare-Ercole Pace, come accade spesso per persone dotate di capacità e genio, era riservato e schivo e, così come successe per il brevetto, la sua modestia ne oscurò la fama, e forse la grandezza professionale: non interessato ad apparire nei titoli di testa, cedette quell’onore ad altri colleghi, con la conseguenza che il suo nome non risulta quasi mai ufficialmente accreditato, soprattutto in alcun film della Scalera.
Con certezza, si sa che lavorò come fonico nel 1939 in Le sorprese del divorzio (regia di Guido Brignone), in La Cavalleria rusticana (regia di Amleto Palermi) nel 1941, in Tosca (regia di Jean Renoir e poi Carl Kock, assistito da Luchino Visconti) nel 1941, lo stesso anno in cui, molto probabilmente, collaborò anche a Il re si diverte (regia di Mario Bonnard), e lavorando anche in È caduta una donna (regia di Alfredo Guarini) nel 1943 e nel celebre I bambini ci guardano (regia di Vittorio De Sica).
Curiosità legate al suo enorme talento provengono da invenzioni ingegnose connesse alla soluzione di esigenze quotidiane nate tra le mura domestiche: fu il primo a realizzare nel 1953 un motoscafo filoguidato a batterie per il figlio Sergio che lo manovrava nella vasca della fontana di Villa Sciarra in via Dandolo a Roma, tra la folla che si radunava incuriosita.
Nel 1967 realizzò il primo telecomando a filo per il televisore in Italia, per permettere alla moglie Lucrezia di cambiare gli allora due soli canali Rai, e regolarne il volume (in questo caso, però, gli americani fecero di meglio: il primo modello conosciuto è il lazy-bone prodotto nel 1950 dalla Zenith Radio Corporation, mentre risale al 1956 il primo modello senza filo ad ultrasuoni dell’inventore austriaco naturalizzato statunitense Robert Adler).
Tornando alle nostre chitarre elettriche, per vedere questi primi veri strumenti Made in Italy bisogna aspettare gli inizi degli anni ‘60.
I modelli realizzati assolutamente originali, si distinsero subito per alcune intuizioni e innovazioni tecnologiche ma soprattutto per il design, come le futuristiche Wandrè, le mitiche Eko, le Zerosette, le Ariston, le Elite, le Crucianelli e le Comet: chitarre leggendarie, che divennero famose in tutto il mondo.
Come è successo nel secondo dopoguerra in Italia nel campo del disegno industriale, anche la chitarra diventa un oggetto di interesse dei designers e, molto spesso, sono disegnate dagli stessi liutai che, in antitesi con l’austerità formale derivante dal superamento dello streamline americano, propongono modelli dai colori, dalle forme e dai materiali inediti, immettendo nell’oggetto un valore aggiunto per compensare spesso disvalori dei materiali; si pensi, in questo senso, alla differenza dei legni che c’era tra una Eko e una Gibson o una Fender, che comunque non avevano allora poi tanta importanza.
L’oggetto-chitarra era diventato un prodotto di culto: servì anche ad infondere quel senso di orgoglio e di coraggio specialmente nei giovani, simboleggiando la modernità e incarnando un po’ l’idea di benessere che stava già cambiando la società e la famiglia italiana inondate di cibo in scatola, scooter, utilitarie ed elettrodomestici, tutto fieramente fatto-in-Italia, e proiettandole in un boom economico senza precedenti, con la colonna sonora del Cantagiro. Questa tendenza positiva, sarebbe durata ancora qualche anno, prima delle bombe di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia e – mi si passi il salto tematico – del Progressive degli Area o delle Orme.
Se i fatti italiani qui narrati avesse preso un altro corso, se, soprattutto, avessimo avuto la forza e la lungimiranza per accreditarli globalmente, se le istituzioni avessero creduto nei loro italici talenti, beh, sarebbe possibile immaginare di vedere, in uno di quei video a colori lofi di Wookstock o di Monterey, un Jimi Hendrix esibirsi con una Airoldi de Luxe o fare in mille pezzi e bruciare una Super-Pace Special al termine di Wild Thing, e la storia del Rock avrebbe avuto senz’altro un altro sapore…
Paolo Di Pasquale si forma studiando prima Architettura poi Disegno Industriale a Roma, specializzandosi in Lighting design. Nel 2004 è co-fondatore dello STUDIOILLUMINA, dove si occupa principalmente di Architectural Lighting Design e Luce per la Comunicazione: lo Studio progetta e realizza allestimenti espositivi e museali, ideazione della luce, corpi illuminanti, scenografia notturna - nel settore della riqualificazione urbana e in progettazione di arredi (porti turistici, parchi, giardini, piazze etc.)-, piani della luce per alcuni Comuni italiani e spettacoli di luce. Nel 2007 fonda lo Studio BLACKSHEEP per la progettazione di architettura di interni e di supporto alla pianificazione di eventi, meeting e fiere. E' interessato alla divulgazione della cultura della luce e del progetto attraverso corsi, workshop, convegni e articoli. Ha insegnato allo IED e in strutture istituzionali. E’ docente di Illuminotecnica presso l’Istituto Quasar - Design University Roma di nel corso di Habitat Design e in quello di Architettura dei Giardini. E' Redattore di art a part of cult(ure) per cui segue la sezione Architettura, Design e Grafica con incursioni nell'Arte contemporanea. Dal 2011 aderisce a FEED Trasforma Roma, collettivo di architetti romani che si interroga sul valore contemporaneo dello spazio pubblico esistente, suggerendone una nuova lettura e uso con incursioni e azioni dimostrative sul territorio metropolitano.
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